Così Prodi ha mollato D’Alema: voleva governare dal Quirinale

Così Prodi ha mollato D’Alema: voleva governare dal Quirinale

Roberto Scafuri

da Roma

Scene da matrimonio. La stanza è quella di Santi Apostoli, con il parquet di legno scuro. Romano Prodi e Francesco Rutelli alle 19 e un quarto si godono in poltrona lo spoglio. Arturo Parisi entra ed esce. La cerimonia ripaga (forse) di tante amarezze passate, di tante ansie future. Resiste la cintura protettiva di schede bianche sul «nominato», l’«Innominato» si macera a 27 voti, quota di scherno piuttosto che bravate interne. Il matrimonio alla Napolitano s’ha da fare.
Parterre di Montecitorio, battute di rimbalzo, genere vario. Considerazioni di vecchi maestri del rito: «D’Alema è proprio un cavallo di razza, non arriverà mai. Come Fanfani». Ovvero: «Noi democristiani occupavamo tutto quello che c’era da occupare, ma sapevamo dove fermarci. E quando c’era di mezzo il Quirinale ci fermavamo e cambiavamo atteggiamento». Calcoli parrocchiali: «Se quello lì fosse andato al Quirinale, ci pensate?, alla fine del mandato avrebbe avuto due anni meno di Romano». Infine, la nota vecchia storiella pedagogica su D’Alema scorpione e la rana prodiana: «Avrebbe punto, e pungerebbe sempre. Perché? Perché è la mia natura, disse lo scorpione...».
L’attivismo di Ciriaco De Mita sui divanetti del Transatlantico fa subito capire che in quest’apparente morta gora il centrismo nuota veloce e in ogni stile. Il lavorio di banderillas e drappi rossi hanno dapprima infuriato e ora infiacchito D’Alema. «È in caduta libera», gongolano i rutelliani. Di nuovo nel tritacarne, con il segretario Fassino nei giorni scorsi a recitare la parte del «prigioniero»: «Che volete? Lui vuole così...». Si dice che il primo atto di questo avvelenamento risalga al vertice nel quale Fassino arrivò dichiarando: «Io non entro nel governo». Prodi e Rutelli si guardarono stupiti, e lo stupore crebbe nell’apprendere che «Massimo aveva deciso così, voi lo conoscete». La vulgata della Margherita ieri vincitrice vuole che da lì siano cominciati i dubbi e le resistenze, con Rutelli nella parte emersa e di Prodi sotto sotto. Intanto si assisteva attoniti all’agitazione dei dalemiani, storcendo il naso: «Ma non si fa così, sul Quirinale non si scherza...». L’intervista di Fassino al Foglio è il punto di non ritorno. Una «carta d’intenti» che by-passa e trafigge persino il nascituro governo. «Garanzie su politica estera, giustizia, riforme istituzionali? E che cos’è, il programma di un altro governo?», avrebbe esclamato Prodi, già restio ad avere un Colle politicante e non garante. «E poi, se il governo andasse in crisi, lui promette che si torna alle urne senza una seconda possibilità? È troppo».
A questo punto, con Berlusconi pronto al muro contro muro, sarebbero prevalse due esigenze. Salvare l’onore della Quercia, stando attenti a non far rinascere alcuna egemonia. «Un nome istituzionale, una persona fuori dai giochi: Napolitano lo è fin dal ’92...». D’Alema sta al gioco, lo fa suo. L’alternativa invece è lo scontro a muso duro. La Margherita fa spallucce: «Ci chiedono di andare a combattere nel nome di D’Alema. Si vincesse, almeno... Ma se poi quel nome ce lo sbattono sul grugno?». Troppi rischi, pochi guadagni. Con il ritorno di un arbitro al Quirinale, ragionano gli uomini della Margherita, si riafferma il prestigio e la centralità di Prodi nella coalizione e nella legislatura. Si allarga il consenso, si getta il seme della discordia dall’altra parte, facendo balenare germi di neocentrismo (l’intesa Rutelli-Casini) e rompendo persino il tabù di un «comunista al Quirinale». Ulteriori effetti positivi collaterali: la Margherita d’incanto si ricompatta, e persino Franceschini (proto-dalemiano) giura che «dopo Napolitano c’è ancora Napolitano» come il rutelliano Gentiloni. «Si prova a votarlo fino a quando non decide lui di mollare, e allora la rosa di candidati è ampia», mettono le mani avanti gli uomini di Rutelli e Parisi.

Le dichiarazioni fioccano di conserva, mentre nei fatti si risponde con violenza a quello che viene considerato «l’ukase dalemiano». Qui si gioca difatti la supremazia nel Partito democratico. Al governo invece presto dovrebbe vedersi un vicepremier-ministro degli Esteri con i baffetti. E un diavolo per capello.

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