Il costo dell’antipolitica

(...) Sole 24 Ore il professor Roberto D’Alimonte, insieme ad altri opinionisti, spezzava più di una lancia a favore del referendum elettorale e di questo bipolarismo i cui frutti sono sotto gli occhi di tutti. Luca Ricolfi sulla Stampa di Torino invocava «un partito che non c’è», quello della responsabilità e del merito, valori che dovrebbero essere universali. Nel frattempo l’economia italiana rallenta, crescono le preoccupazioni per i mercati finanziari, mentre la politica tutta vive ogni giorno di accuse reciproche in una guerra di tutti contro tutti. È questo, a brevi linee, lo scenario del Paese nel quale vive e si alimenta la spirale perversa di una frantumazione politica e di un modello cesaristico che, nelle istituzioni come nei partiti, ha fatto il suo tempo. Ed allora ha ragione Romano nel chiedersi dove sono gli intellettuali italiani e i pensatori politici, ma la loro colpa non è certo l’indifferenza sulle sorti del partito di Prodi e di Veltroni, quanto piuttosto su quelle più complessive della democrazia italiana. Per non restare intrappolati anche noi nel genericismo accusatorio diciamo subito che il problema di fondo è una nuova grande questione democratica, senza risolvere la quale avremo sempre un governo che avrà anche una maggioranza nel Parlamento, ma sarà minoranza nel Paese. Sono ormai 15 anni che tutto ciò accade e durante questo tempo la politica ha subito un processo involutivo senza precedenti. Il modello liberistico che si è imposto necessariamente per contrastare la spinta autoritaria della sinistra nei primi anni Novanta ha finito però per uccidere nella culla tutti i possibili gruppi dirigenti, con il risultato che i partiti sono sempre più diventati involucri senza senso, incapaci di selezionare nuove idee e nuove energie. Questo modello di partito cesaristico si è trasferito nelle istituzioni periferiche per cui ogni sindaco e ogni presidente di Regione è diventato un partito a sé, autoreferenziale e privo di ogni controllo, dentro e fuori le rispettive assemblee comunali e regionali. È così che un Bassolino ha potuto impegnare in un anno un milione di euro per spese di rappresentanza che in altre epoche non gli sarebbero mai state consentite. Quel costo della politica di cui tanto si parla, in verità, è solo il costo dell’antipolitica che vuole il governo del Paese nelle mani di pochi per poterlo meglio condizionare. Questo modello oligarchico aveva bisogno di quattro cose per affermarsi: 1) lo svuotamento del Parlamento del suo diritto-dovere di decidere le alleanze politiche più utili per il Paese; 2) la sostituzione di una cultura politica di riferimento con il carisma di un leader e con un programmismo senza anima e senza ideali; 3) il premio di maggioranza, istituto sconosciuto a tutte le altre democrazie occidentali, che dà alla coalizione che vince per un voto decine di parlamentari in più, trasformando così surrettiziamente in partito di massa chi partito di massa non è; 4) l’abolizione del voto di preferenza che impedisce qualunque selezione darwiniana della classe dirigente parlamentare.
Piaccia o no, la politica esercita sempre il suo primato, anche quando lo fa in negativo, come in questi anni, nonostante gli sforzi dei moderati italiani. Ed allora il bandolo della matassa è proprio qui, nel riprendere cioè il filo di una politica fatta da folti gruppi dirigenti selezionati dagli elettori con alle spalle chiare culture politiche di riferimento e con istituzioni capaci di riappropriarsi delle proprie funzioni di indirizzo, di controllo e di definizione delle alleanze politiche.

Se gli intellettuali italiani sono assenti o, peggio ancora, cavalcano l’onda dell’antipolitica, spetta allora ai due maggiori partiti, Forza Italia e il futuro partito di Veltroni e Prodi, riportare l’Italia nell’alveo di una normalità democratica di stampo europeo nella quale leader autorevoli e gruppi dirigenti convivono, migliorando insieme la qualità della politica. Solo allora il Paese potrà davvero ripartire.
Geronimo

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