Critici voltagabbana

Coen, basta la parola. Tutto quel che toccano diventa oro. Specialmente nelle recensioni, magari un po’ meno al botteghino. Come dimostrano gli incassi, non proprio esaltanti, di Mister Hula Hoop o Ladykillers, tanto per citare un paio di titoli nel vasto, ma non troppo, libro d’oro dei due fratelli di Minneapolis. Pronti a essere inondati di probabili Oscar dopo la marea di lodi al loro ultimo film, Il Grinta, rifacimento del celeberrimo western con John Wayne, il divo più amato dal pubblico americano. E più disprezzato dalla critica colta. Non solo americana. Figurarsi, uno che sullo schermo sparava agli indiani e nella vita si schierava, in prima fila, con i repubblicani. Insomma, un reazionario. Un fascista. Che però stava in sella come nessun altro e quando impugnava il fucile, caracollando con quella sua camminata da sfasciatutto, c’era soltanto da raccomandarsi l’anima a qualcuno molto in alto. Con quel Grinta di ormai quarantadue anni fa, il vecchio, malatissimo Wayne arraffò anche l’Oscar, un tardivo omaggio a una carriera inimitabile più che un premio a un’interpretazione per così dire normale. Almeno per lui. In Italia, come del resto in altri paesi vittime del sinistrismo culturale, Il Grinta ebbe un’accoglienza, a esser generosi, tiepida. Anche se sarebbe più calzante definirla rovente, per via dei sit in e delle sbandierate (rosse) davanti ai cinema dove veniva proiettato. Colpa dell’appartenenza politica dell’attore, che giusto l’anno prima, aveva sfornato Berretti verdi, un appassionato, e certo eccessivo, inno alla guerra in Vietnam. Che aveva suscitato lo sdegno internazionale dei pacifisti a senso unico. E il minimo storico delle stellette della critica. Ora Il Grinta bis, grazie ai Coen è già diventato uno dei capolavori western di sempre, roba da stare sul podio con Ombre rosse e Un dollaro d’onore. Quando si dice la sfiga, due film con John Wayne. Chissà se anche the Duke, il soprannome più azzeccato di Wayne, si sarà chiesto che cosa diavolo occorre per piacere a un critico, oltre alla faccia giusta, a un pizzico di talento e, naturalmente, a simpatie progressiste. Semplice: la patente di genio. Che, a differenza, di quella automobilistica non viene mai ritirata, nemmeno se alzi troppo il gomito. Ovvero, fuor di metafora, se fai delle boiate pazzesche. Una regola aurea, che vale soprattutto per i massimi autori, tipo, che so, Woody Allen, Quentin Tarantino e appunto i Coen. Ogni cosa che fanno è un’opera d’arte, ogni cosa che dicono è più sacra del vangelo. Prendete proprio Tarantino, baciato dal titolo, non restituibile, di Grande, dopo il colpo doppio iniziale delle Iene e di Pulp Fiction. La critica snob che l’aveva sospinto sull’altare non poteva tirarlo giù nemmeno a sipario chiuso sull’indecente suo terzo film, Four Rooms, che se l’avesse fatto uno che si chiamasse Tarantini, con la i finale, sarebbe stato radiato dall’albo dei registi. Guarda il destino, proprio Tarantini, esagerato nome di battesimo Michele Massimo, è stato uno dei più dileggiati (dalla critica) registi degli anni Settanta, autore, tra l’altro, di La poliziotta della squadra del buon costume, La dottoressa ci sta col colonnello, La moglie in bianco...l’amante al pepe. Ma è bastato che il suo quasi omonimo americano, dall’alto della Fama e della poltrona di presidente della giuria veneziana, l’anno scorso sdoganasse il nostro inglorioso cinema alla puttanesca, perché anche la Sacra Critica Unita avesse dei tormentati ripensamenti. Forse sì il michelangiolesco lato di Nadia Cassini e il tizianesco lato A di Edwige Fenech meritavano un’altra occhiata. Nel senso, beninteso, di un’altra angolazione critica. Il principe De Curtis, che dei sublimi voltafaccia dei recensori non aveva potuto tener conto per prematura dipartita, si sarebbe scompisciato a rileggere certe sfrontate inversioni a U.

Totò, Peppino e la malafemmina? «Un gioiello della comicità surreale», arpeggia oggi Paolo Mereghetti sul suo Dizionario dei film. «Avanspettacolo e fumetto della peggiore qualità», ammoniva il Vice di turno dalle pagine dell’Avanti! il 9 settembre del ’56. Ma mi faccia il piacere.

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