Caro Direttore Feltri, lo ha scritto Lei per primo qualche giorno fa: si respira un clima di violenza crescente. Ma non soltanto nelle piazze, come ha sottolineato anche il ministro Piantedosi, evocando anche lui, come lei, gli anni del terrorismo rosso, ma pure negli ospedali, nelle scuole. Ogni giorno leggiamo di aggressioni a medici, insegnanti, agenti di polizia. Ora pure il ministro Valditara, a proposito dell'insegnante pestata da una trentina di persone, i genitori e familiari di alcuni alunni, in provincia di Napoli, dice che «la società è sempre più violenta» e che occorre «recuperare i valori della civile convivenza». Lei come si spiega quello che sta accadendo?
Giulio Mele
Caro Giulio, proprio ieri, sulle colonne di questo giornale, mi sono occupato del fenomeno della violenza giovanile, che non si sostanzia soltanto negli atti di bullismo ma ormai anche in veri e propri atti criminali, sempre più gravi e sanguinari, messi a segno da ragazzini che se ne vanno in giro, persino a scuola, armati di coltello, arma che non esitano ad utilizzare allorché si sentono in qualche modo offesi o semplicemente per mostrarsi forti e dare pubblicamente prova di sé. Dietro questi ragazzi ci sono genitori parimenti violenti, che non hanno insegnato ai figli come comunicare, in quanto la violenza è la negazione del dialogo, del confronto. Incapaci di reggere una conversazione o una discussione, essi, sia genitori che figli, diventano aggressivi, rabbiosi, insofferenti. Ed ecco che ad essere contestate e aggredite sono proprio quelle figure che, nell’immaginario collettivo, rappresentano in qualche modo l’autorità, e che una volta erano punti di riferimenti della comunità. È un modo di soverchiare ed esprimere intolleranza nei confronti di un determinato ordine sociale, del potere costituito, di qualsiasi soggetto o oggetto si frapponga tra me e quello che io desidero fare o ottenere.
L’idea di fondo è che il medico, il poliziotto, il professore debbano comportarsi come io mi aspetto che si comportino, compiere quello che io mi aspetto essi compiano, agire come io mi aspetto che essi agiscano. È ai miei ordini che essi devono sottostare, perché essi sono al mio servizio. Allorché ciò non avviene, mi armo e punisco, convinto che sia un mio diritto. Questo atteggiamento deriva dall’assenza di disciplina. È assente anche il rispetto del lavoro, considerato che operatori della sanità, della sicurezza e dell’educazione sono lavoratori che, ciascuno alle prese con le difficoltà che caratterizzano il proprio ambito, quotidianamente sgobbano per portare la pagnotta a casa. Coloro che scatenano la furia e adoperano la forza bruta contro questi professionisti dovrebbero tenerlo a mente. Ecco quali sono i valori civili da recuperare: rispetto del lavoro, confronto basato sull’ascolto, riguardo verso l’«autorità», che non è - attenzione - ossequio né riverenza, né tanto meno sottomissione, bensì accettazione dei ruoli: i discenti rispettino i docenti che li formano, i cittadini rispettino le forze dell’ordine che li tutelano, i pazienti rispettino i medici che li curano.
Sembrano banalità questi concetti eppure li abbiamo smarriti. Ma come fanno i genitori a trasmettere ai figli questi valori se essi stessi non li hanno mai interiorizzati?
E come faranno questi figli a trasmetterli a loro volta ai discendenti se nessuno glieli inoculerà?
Insomma, non se ne esce. Una volta che la deriva comincia diviene arduo arrestarla.
Io intanto, in questo stato di emergenza, ricorrerei alle soluzioni vecchie, quelle semplici, quelle di
una volta: pedate e schiaffoni a chi sbaglia. I metodi educativi improntati alla mollezza, al libertinaggio, alla iperprotezione, alla preservazione spinta all’eccesso, alla clemenza esasperata hanno prodotto frutti marci.
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