Pluriomicida, ex boss di Cosa Nostra e poi, collaboratore di giustizia. Giovanni Brusca, attentatore della strage di Capaci e mandatario di quella in via D'Amelio, è tornato in libertà dopo 25 anni di reclusione. Nel suo curriculum criminale conta più di 150 omicidi, tra cui l'uccisione del piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio del pentito mafioso Santino Di Matteo, strangolato e poi sciolto nell'acido. "Non ricordo i nomi di quelli che ho ucciso. Molti più di cento, di sicuro meno di duecento", rivelò a Saverio Lodato, autore del libro "Ho ucciso Falcone" (Mondadori).
Chi è Giovanni Brusca detto "u verru"
Figlio del superboss Bernando Brusca, entrò a far parte della cosca paterna - la famiglia di San Giuseppe Jato - sin da giovanissimo insieme ai fratelli Emanuele ed Enzo Salvatore. All'età di 19 anni mise a segno il suo primo omicidio per conto dei Corleonesi capeggiati, al tempo, da Totò Riina. Poco dopo, diventa membro di spicco di un vero e proprio "gruppo di fuoco", formato cioè da killer di notevole spessore criminale, concquistando la fama di "u verru" (il porco) o scannacristiani per la ferocia con cui aggredisce le vittime. Nel 1977 partecipò all'omicidio del colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo e, nel 1983, si occupò di prepare l'ordigno utilizzato per uccidere il giudice Rocco Chinnici e gli agenti di scorta. Nello stesso anno, uccise in un agguato Mario D'Aleo, comandante della Compagnia di Monreale, insieme ai colleghi Giuseppe Bommarito e Pietro Maci.
L'uccisione di Giuseppe di Matteo
Giovanni Brusca è stato anche l'assassino Giuseppe Di Matteo, figlio 13enne del pentito mafioso Santino Di Matteo. Per vendicare "il tradimento", con la collaborazione di altri criminali, sequestrò il ragazzo nei pressi di un maneggio e, per i due anni successivi, lo spostò continuamente in vari nascondigli. I tentativi di Cosa Nostra di convincere il padre del ragazzino a ritrattare le sue confessioni fallirono, dunque Brusca decise di eliminare il piccolo Di Matteo, facendolo prima strangolare e poi sciogliere nell'acido.
La strage di Capaci e via D'Amelio
Quando nel 1992 i Corleonesi iniziarono a fare la guerra contro lo Stato, Brusca diventò uno dei killer di spicco della cosca. Uccise il capo della Famiglia di Alcamo, Vincenzo Milazzo e, pochi giorni dopo, ordinò lo strangolamento anche della compagna di Milazzo, Antonella Bonomo, incinta di tre mesi. Brusca diresse poi la fase esecutiva della strage di Capaci, occupandosi sia del reperimento dell'esplosivo che della deflagrazione dell'ordigno che uccidese il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli uomini della scorta: Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Di Cillo. Fu lui ad azionare il telecomando che provoca l'esplosione di una bomba contenente circa mille chili di tritolo piazzata nello scolo sotto la superficie dell'autostrada per Capaci.
Brusca dichiarò, inoltre, di non aver partecipato fisicamente alla Strage di via d’Amelio, avvenuta il 19 luglio 1992 a Palermo in cui persero la vita il giudice antimafia Paolo Borsellino e la sua scorta, bensì di essere uno dei mandanti perché a conoscenza di tutti i progetti di morte di Cosa Nostra per l’anno 1992.
L'arresto
Nel gennaio 1996, seguendo le indicazioni del collaboratore di giustizia Tony Calvaruso (ex braccio destro di Leoluca Bagarella), gli inquirenti arrivarono ad una villa a Borgo Molara, dove Brusca si nascondeva insieme alla compagna Rosaria Cristiano e al figlioletto Davide di 5 anni, che però riuscirono a fuggire prima dell'irruzione delle forze dell'ordine. All'operazione parteciparono più di 400 uomini e 40 mezzi speciali della polizia. L'azione fu molto movimentata e nello stesso tempo velocissima: a irrompere dalla porta furono contemporaneamente 80 uomini e altri 80 dalla finestra nella stanza dove Brusca e il fratello stavano mangiando. Nel giugno 1996, a circa un mese dall'arresto, Brusca iniziò a rendere dichiarazioni ai magistrati delle Procure di Palermo, Caltanissetta e Firenze. I due vennero scortati in manette da un convoglio di poliziotti fino alla Questura di Palermo, dove gli agenti con il volto coperto dal passamontagna arrivarono con le mitragliatrici alzate.
Lo status di collaboratore di giustizia e il ritorno alla libertà
Nel giugno 1996, a circa un mese dall'arresto, Brusca iniziò a rendere dichiarazioni ai magistrati delle Procure di Palermo, Caltanissetta e Firenze.Nel 2000 Brusca (fino ad allora considerato dalla giustizia solo un "dichiarante") riuscì ad ottenere lo status di "collaboratore di giustizia", che gli consentì di lasciare il regime carcerario duro previsto dall'art.41-bis e di godere dei benefici previsti dalla legge, compreso un sussidio di 500mila lire al mese per sé e la sua famiglia. Inizialmente fu condannato all'ergastolo per l'omicidio di Ignazio Salvo. Dopo il suo pentimento la pena gli viene ridotta a 26 anni di reclusione. Qualche anno fa, ha ottenuto l'autorizzazione dei giudici del tribunale di sorveglianza di Roma, grazie alla “buona condotta”, di godere permessi premio di qualche giorno.
Adesso per lui è arrivato il fine pena grazie ad un ultimo abbuono di 45 giorni di liberazione anticipata, deciso dal tribunale di sorveglianza di Roma e recepito dai giudici di Milano. Ieri, ha lasciato il carcere di Rebibbia dopo 25 anni di reclusione."Ho ucciso Giovanni Falcone. Ma non era la prima volta: avevo già adoperato l'auto bomba per uccidere il giudice Rocco Chinnici e gli uomini della sua scorta. Sono responsabile del sequestro e della morte del piccolo Giuseppe Di Matteo, che aveva tredici anni quando fu rapito e quindici quando fu ammazzato. Ho commesso e ordinato personalmente oltre centocinquanta delitti. Ancora oggi non riesco a ricordare tutti, uno per uno, i nomi di quelli che ho ucciso. Molti più di cento, di sicuro meno di duecento".
(Giovanni Brusca, dichiarazione tratta dal libro Ho ucciso Giovanni Falcone, di Saverio Lodato, Mondadori)
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