"Qualcuno protegge i fratelli Savi...". Le ombre sulla banda della Uno Bianca

A 27 anni dall'arresto dei componenti della banda della Uno bianca, sono ancora tante le ombre. Se chi ha condotto le indagini parla di "corpo di indagine corretto", per i familiari delle vittime non tutta la verità sarebbe emersa

"Qualcuno protegge i fratelli Savi...". Le ombre sulla banda della Uno Bianca

Si dice stupito per la riapertura delle indagini, Roberto Savi, il "corto" della banda della Uno bianca e capo della stessa insieme ai fratelli Fabio e Alberto.

L’ex poliziotto di Rimini sta scontando l’ergastolo presso il carcere di Bollate. Ad averlo informato sulla nuova indagine e del carteggio depositato in Procura, come riporta la stampa locale, è stato il suo avvocato per tramite del quale Roberto Savi fa sapere dal carcere che non c’è un’altra verità diversa da quella già resa ai magistrati.

Eppure, secondo alcuni familiari delle vittime, i punti oscuri sulla vicenda sarebbero diversi e le versioni emerse durante i processi non sarebbero soddisfacenti. I familiari delle vittime vorrebbero vederci chiaro, poiché non tutta la verità sarebbe emersa e, soprattutto, non tutti i responsabili avrebbero pagato.

Ad oggi non è ancora chiaro cosa abbia spinto i fratelli Savi a seminare terrore e morte e se ci fosse qualcuno o qualcosa a muovere i fili delle loro azioni. E se da una parte, prendendo in esempio le diverse rapine, si pensa a una questione legata ai soldi, dall’altra è ben chiaro che l’intenzione dei membri della banda, durante i vari agguati, era quella di uccidere. Il nodo "oscuro" sarebbe proprio il perché, il motivo di questo spargimento di sangue.

Mentre Ludovico Militilini, fratello di uno dei carabinieri uccisi nella strage del Pilastro, preferisce non commentare le dichiarazioni di Roberto Savi, Vito Tocci, ex carabiniere, sopravvissuto a un agguato, sostiene che in questura a Bologna più di qualcuno avrebbe saputo e non avrebbe parlato. Rosanna Zecchi invece, presidente della associazione "Familiari vittime della Uno bianca", sostiene, così come dichiarato in una intervista al Tg2, che qualcuno avrebbe protetto i Savi, continuando a proteggerli ancora oggi nonostante si trovino in carcere, anche se Roberto Savi ha più volte negato altre complicità rispetto a quelle dei membri della banda, così come suo fratello Fabio che, provocatoriamente, durante i processi, ha sempre sostenuto che dietro la Uno bianca ci fossero solo targa e paraurti.

Poi c’è chi, da poliziotto della squadra mobile, ha preso parte all’indagine che ha portato in cella i fratelli Savi e parla di corpo dell’indagine eccellente, senza però escludere che qualcuno, magari tra le persone più vicine ai Savi, possa aver notato un cambiamento in loro che, se intercettato per tempo, avrebbe potuto fermare prima i killer.

Si tratta di Antonio Cardinali, oggi ispettore superiore della Polizia di Stato in quiescenza.

Il 28 agosto 1991, Cardinali, assistente della Polizia appena trentenne, rimase ferito in un conflitto a fuoco proprio con due dei fratelli Savi, Roberto e Fabio, mentre fuggivano dopo aver messo a segno una rapina a Pesaro.

Cardinali, in pattuglia con un altro collega, trovandosi a sud rispetto al luogo della rapina, per accorciare i tempi, decise di intraprendere una strada secondaria: "Notammo una prima auto, una Golf bianca targata Forlì, con una persona a bordo e la sorpassammo – racconta Cardinali al Giornale.it – subito dopo ne notammo un’altra, una Fiat Regata bianca, sempre targata Forlì e la cosa ci insospettì. Ci avvicinammo e notammo la persona sul lato passeggeri, girarsi di continuo verso di noi. Quello era Fabio Savi, ma noi non potevamo immaginare".

Notati i due tipi sospetti, i due agenti pensano che si tratti dei rapinatori, ma non collegano affatto i due alla banda della Uno bianca.

"Comunico la targa in centrale, alzo la paletta e decido di procedere al controllo. Impugno l’arma e, proprio quando sto per avvicinarmi, Fabio Savi inizia a sparare e con lui anche suo fratello Roberto che era alla guida".

Sui due poliziotti una scarica di trenta colpi. Un proiettile passa in verticale e causa a Cardinali una bruciatura al torace. L’altro gli rompe completamente l’ulna e si ferma nel bacino. Cardinali e il collega si buttano a terra, il braccio cede, è rotto e lui sanguina.

I Savi continuano a sparare e fuggono via. I due poliziotti vengono in seguito soccorsi da una coppia di passaggio e accompagnati in ospedale.

Cardinali, in servizio alla Squadra Mobile, proprio per i crimini commessi a Pesaro dalla banda della Uno bianca, ha lavorato all’interno del pool investigativo del quale facevano parte i poliziotti Luciano Baglioni e Pietro Costanza, coloro i quali hanno smascherato i fratelli Savi.

“Il corpo delle indagini era ottimo – racconta Cardinali – sono state condotte in modo corretto. Gli episodi sono stati tantissimi, parliamo comunque di una vicenda complessa e trent’anni fa non c’erano le tecniche investigative che conosciamo oggi. Io credo che i responsabili materiali siano stati individuati. Si vociferava, nei nostri ambienti, che potessero essere appartenenti alle forze dell’ordine, per via delle tecniche che utilizzavano nei conflitti a fuoco. Ci sono modi di impugnare l’arma e di fare fuoco, propri di chi è un appartenente o frequenta poligoni. Ma erano solo voci".

Il perché i Savi avessero intrapreso questa strada e il movente resta, più che sconosciuto, incompreso. "È stato doloroso – dice Cardinali – e non solo in senso fisico. È stato doloroso sapere che a sparare siano stati dei nostri colleghi.

Nonostante ciò, ho continuato a guardare con orgoglio alla mia divisa, ho continuato a lavorare nella squadra mobile, ad occuparmi di criminalità e rapine, proprio quel tipo di reati di cui si si sono macchiati i componenti della banda della Uno bianca”.

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