I destini di Generali, la società finanziaria più internazionale e più strategica che abbiamo in Italia, rischiano di essere decisi in una rissa da cortile, ancorché di alto livello. E, al momento, tra i due partiti rivali nessuno spicca né per trasparenza, né per correttezza.
Da un lato c'è la società stessa, impegnata nel rinnovare i vertici attraverso una formula quella delle nomine decise dal cda uscente che non è regolamentata dalla legge ma è consentita nella prassi (in Italia è stata adottata finora da sole 11 società). Insieme alle Generali, fornendo pieno e incondizionato appoggio al suo capo, Philippe Donnet, c'è Mediobanca, storico grande azionista della compagnia, con una quota poco sotto il 13%, elevata per l'occasione al 17% con un prestito titoli.
Dall'altro lato ci sono due imprenditori dal nome e dalla storia altisonante, Leonardo Del Vecchio e Francesco Gaetano Caltagirone, uniti da un patto di consultazione e voto in assemblea. I due hanno investito una fortuna nelle Generali: oltre 2 miliardi Del Vecchio e 2,4 miliardi Caltagirone, arrivando (insieme alla Fondazione Crt) a superare il 16% del capitale di Generali. E ora vorrebbero cambiare il vertice della società, sostituendo Donnet.
La questione è quindi elementare: chi ha investito una montagna di capitale proprio - Caltagirone e Del Vecchio - vuole avere voce in capitolo. Mentre chi da sempre è abituato a comandare a Trieste - Mediobanca - non intende perdere una guerra di potere. Tutto il resto è contorno, di volta in volta ammantato da spiegazioni giuridiche, pareri super partes, cacciatori di teste anglofoni e consulenti per la comunicazione. Per cui si può spaccare il capello in quattro su come comporre «la lista del cda» e seguire le «best pratice» suggerite da studi legali usciti dai romanzi di John Grisham; elencare i miliardi di dividendi distribuiti, oppure invidiare gli svizzeri di Zurich.
È in questo quadro che la vicenda rischia di diventare sceneggiata. Perché ci sta che Caltagirone abbia deciso di dimettersi dal cda della società dove ha messo 2,4 miliardi senza poter contare nulla. Lo faremmo anche noi. Ma le dimissioni comunicate alla società a tarda sera, quando non risultano essere avvenuti fatti nuovi da almeno tre settimane, non ci paiono contribuire alla comprensione della situazione. Meglio sarebbe stato farlo a freddo e spiegare al mercato cosa era successo.
Ma lo stesso vale per la reazione della società: per prassi Generali comunica le questioni «price sensitive» (sensibili rispetto alle quotazioni di Borsa) prima dell'apertura del mercato. Lo fa con i conti o con il piano industriale, in modo che si possano valutare le cose come si deve nel corso della stessa giornata di mercato. Ma non l'ha fatto con le dimissioni del suo vicepresidente, comunicate a mezzanotte, con la replica del presidente Galateri, ma senza diffondere il testo completo della lettera di Caltagirone.
In entrambi i casi il sospetto è che la strategia di comunicazione faccia premio su ogni altra questione.
Ma così si dimentica che la partita Generali non riguarda solo le persone, ma soprattutto la compagnia dalla quale - con 680 miliardi di asset in pancia, di cui 60 di Btp - dipende una bella fetta dell'autonomia finanziaria nazionale. Un tema che ci auguriamo finisca al più presto all'attenzione delle istituzioni.
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