Un'indubbia qualità in politica è quella di cogliere l'attimo fuggente, perché spesso l'incapacità di sfruttare una grande opportunità è seguita da una crisi di identità. Poi, a volte, capita di sbagliare il momento, cioè di osare quando non si dovrebbe, ma questo appartiene più al campo delle ambizioni individuali che non alle categorie della politica. Alla seconda fattispecie appartiene il desiderio, sicuramente legittimo, di Mario Draghi di lasciare Palazzo Chigi per il Quirinale. Un simile tentativo di fronte all'esigenza di prorogare lo stato d'emergenza con il perdurare della pandemia e alle incognite che incombono sulla nostra economia, rischia infatti di essere mal interpretato: malgrado la sua indubbia abilità quando, secondo un copione studiato nei particolari, Mario Draghi porrà nel suo stile felpato la questione nella tradizionale conferenza stampa di fine anno, rischia di far passare il suo disegno più che per un'esigenza del Paese per un capriccio personale.
Alla prima categoria, invece, appartiene l'eventualità che il centro-destra non riesca, pure avendo l'opportunità, a portare un suo esponente al Colle. All'indomani delle ultime amministrative quando Fi, Lega e Fratelli d'Italia per colpa della competizione interna e degli egoismi di partito presero una batosta storica perdendo tutte le grandi città, scrissi che se avessero avuto lo stesso comportamento masochista nell'elezione del Capo dello Stato, di fatto, avrebbero dimostrato che la coalizione non esiste più, che ne è rimasto solo un sepolcro imbiancato. Ora, almeno in pubblico, l'alleanza punta su Berlusconi, ma spesso le parole di Salvini e della Meloni sono corredate da una serie di «ma» e di «subordinate». Tante riserve che esigono una riflessione: se la candidatura del Cavaliere messa in campo al quarto scrutinio, quello che richiede solo la maggioranza assoluta, sarà stoppata dall'impossibilità di conquistare voti al di fuori della coalizione, «nulla quaestio»; ma se per caso verranno a mancare i consensi del centro-destra allora si aprirà un problema di non poco conto. Verificarlo sarà semplice con le tecniche di voto: basterà per scoprirlo che i «Silvio Berlusconi» nelle urne non corrispondano al numero dei grandi elettori azzurri, che i «Berlusconi Silvio» a quelli dei leghisti e che i «S. Berlusconi» a quelli della Meloni. Se qualche scheda mancherà all'appello qualcuno sarà venuto meno alla parola. E la storia insegna che le conseguenze non saranno indolori: la fine dei partiti della prima Repubblica, ad esempio, fu determinata da quei 100 voti che nel 1992 Andreotti fece mancare a Forlani per l'ascesa al Quirinale; ma per non andare troppo in là nel tempo, basta pensare ai 101 voti del Pd che nella corsa al Colle del 2013 silurarono Prodi e mandarono a pezzi il centro-sinistra.
E forse i primi che dovrebbero scongiurare in ogni modo l'esplosione del centro-destra sono proprio Salvini e Meloni: se la coalizione andasse in crisi verrebbe a mancare ad entrambi l'unico strumento che hanno a disposizione per arrivare a Palazzo Chigi.
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