La fotografia di quanto delicati siano gli equilibri all'interno della maggioranza sta tutta nella scelta di Giuseppe Conte di non tendere la mano alla richiesta-appello di un Nicola Zingaretti sempre più in difficoltà sul fronte del referendum. Il taglio dei parlamentari - che il Pd ha votato in quarta lettura dopo tre «no» solo come pegno di sangue al M5s per dare vita al governo giallorosso - è infatti tema che divide tutti i partiti al loro interno, ma che sta letteralmente dilaniando i dem. Di qui la richiesta pubblica del segretario del Pd, che lunedì scorso ha invitato il premier ad «affrontare» il tema delle modifiche costituzionali da affiancare alla riforma del taglio dei parlamentari che sarà oggetto di referendum il 20 e 21 settembre. Passati quasi due giorni, da Palazzo Chigi non è arrivato niente di più che un silenzio assordante. Non solo Conte non ha detto una parola una per tranquillizzare un sempre più agitato Zingaretti, ma anche il suo entourage si è trincerato dietro il più classico dei «no comment». D'altra parte, si fa notare, in queste ore ci sono «altre priorità», a partire dalla riaperture delle scuole - oggi alle 11 l'incontro tra governo e Regioni per le linee guide anti Covid - fino ai molti dossier economici in agenda già dalla prossima settimana. Dal Recovery Fund al Mes, passando per la legge di stabilità.
Un silenzio che a largo del Nazareno inizia a destare qualche preoccupazione, tanto che ieri è tornato alla carica anche il capogruppo alla Camera Graziano Delrio. «Chiedo coerenza agli alleati, l'accordo sulla riduzione del numero dei parlamentari prevedeva una serie di altre modifiche finalizzate a correggere gli squilibri che si sarebbero creati con il solo taglio degli eletti», spiega l'ex ministro. Parole, come quelle di Zingaretti, cadute nel vuoto. E a cui non ha replicato neppure l'ultimo dei peones del M5s. D'altra parte, su questo terreno Luigi Di Maio gioca da super favorito visto che i sondaggi dicono che almeno il 60% degli italiani è favorevole al taglio dei parlamentari, piatto forte della campagna anti-casta su cui il Movimento ha costruito le proprie fortune. Che poi il taglio tout court e senza correttivi rischi di avere pesanti ripercussioni sul funzionamento del Parlamento - in particolare delle commissioni parlamentari al Senato - e della rappresentanza - a rischio quella su base regionale a Palazzo Madama - poco importa. Quel che conta è il consenso. Non solo per Di Maio, ma anche per tutti gli altri partiti che nonostante dubbi e perplessità non se la sentono di promuovere una campagna per il «no» al referendum. E tra questi, proprio il Pd è quello più in difficoltà, al punto che la prossima settimana si terrà una direzione nazionale per formalizzare una posizione in proposito. È probabile che per allora arrivi un segnale da Conte, un qualche gesto che consenta a Zingaretti di dire che i tanto attesi correttivi ci saranno, anche sul fronte della legge elettorale (proporzionale con soglia di sbarramento al 5%). Tralasciando che legare la bontà di una riforma costituzionale a una legge ordinaria (per altro non ancora approvata) non è proprio il massimo, è del tutto evidente che la contraddizione che sta vivendo il Pd in questi giorni è di difficile soluzione. Soprattutto perché non esiste spiegazione valida al fatto che i dem abbiano aspettato fino ad oggi - a meno di un mese dal referendum - per porre seriamente il problema dei mancati correttivi. Che, comunque, al massimo potranno essere «promessi», cosa ben lontana dal realizzarli davvero.
La verità è che il taglio dei parlamentari è la dote portata da Zingaretti quando ha deciso di dare vita al Conte II e oggi, dopo avere votato la quarta lettura neanche un anno fa, per il Pd è quasi impossibile sfilarsi. Lo sa bene anche il premier. E forse è anche per questo che - almeno per ora - ha deciso di lasciare cadere nel vuoto l'appello fuori tempo massimo di Zingaretti.
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