Femministe choc: via i maschi dal nostro corteo

Alla sfilata antiviolenza uomini relegati in coda. Ma se diventa una crociata di genere non aiuta le donne

Femministe choc: via i maschi dal nostro corteo

L'ossessione femminile anti-femminicidio? Francamente, non se ne può più. Quella che potrebbe essere una apprezzabile campagna culturale contro la violenza, sempre e comunque, di quelle iniziative che non cambiano il mondo ma ci rendono più responsabili e solidali, si è trasformata in una crociata ideologica total pink. Al punto da paventare l'esclusione del Maschio dal corteo che si terrà sabato a Roma dietro lo striscione «Non una di meno».

Un'animatrice del gruppo «Se non ora quando Factory» spiega il no alla presenza maschile: «Con gli uomini si va a spasso, in viaggio, si fanno altre cose, ma a manifestare contro la violenza maschile si va solo con le donne». Alla fine si è raggiunto un compromesso: sì agli uomini purché restino in coda. Alla testa del corteo sfileranno esclusivamente le donne. Avete capito bene, quello che vi raccontiamo non è uno scherzo. Le fautrici della mobilitazione anti-violenza propugnano il segregazionismo di genere. Sei maschio? La piazza ti è inibita. Puoi essere il più dolce e mansueto dei mariti ma la circostanza del tutto casuale di esser nato maschio impone lo stigma di potenziale femminicida.

È così che il femminismo più retrivo cessa di essere affermazione emancipatoria della parità tra i sessi per rinchiudersi invece in una gretta rivendicazione della differenza tutta femminile, della nostra specificità come portatrici sane di vagina, donne-paladine-delle-donne, e in quanto tali dualisticamente contrapposte all'essere umano di fallo dotato. Femmine contro maschi, che noia. E dire che alcune grandi conquiste femminili si devono proprio a loro, pensate soltanto al socialista Loris Fortuna, la legge sul divorzio porta il nome suo e del liberale Baslini, due uomini. C'è poi un malinteso sostanziale. Il femminicidio dobbiamo dirlo noi donne per prime, tutte insieme, ad alta voce il femminicidio non esiste.

Esiste l'assassinio che è sempre, in ogni caso, in ogni tempo, in ogni luogo, un atto abietto. Sull'onda di una martellante campagna mediatica fondata sull'emotività, il governo Letta introdusse le aggravanti stabilendo per legge che uccidere una donna sia più grave che uccidere un uomo.

Eppure la vita umana ha pari dignità. Io vorrei vivere in un mondo dove nessun maschio rifiutato osi impugnare un coltello per squartare il petto della ex compagna, e vorrei pure non leggere notizie di mariti ammazzati, testicoli amputati, avvelenamenti a scopo ereditario o altre mostruosità commesse da talune donne.

La sopraffazione femminile sul maschio esiste, e si esprime non solo sul piano fisico. Per giunta, a causa di una forma di pudore molto latino, c'è una maggiore ritrosia degli uomini a denunciare le compagne moleste.

L'emergenza femminicida è una invenzione, anzi è l'ennesima riprova della «post truth society» nella quale viviamo. Non conta la verità, contano le emozioni.

Secondo l'Istat, gli omicidi nel nostro Paese sono in calo dagli inizi degli anni '90, e lo scorso anno si sono verificati 128 casi di femminicidio, 136 nel 2014, 179 nel 2013. Con queste cifre, in un trend decrescente, in un Paese di circa 60 milioni di abitanti, con quasi 94 maschi ogni 100 femmine, si può forse parlare di «emergenza femminicidio»? O di «epidemia femminicida»? I suicidi nelle carceri italiane sono stati quasi mille negli ultimi quindici anni, eppure non godono di un risalto mediatico paragonabile. Anzi non fanno notizia.

Perché noi produttori di notizie, i mass media, insieme a qualche donna che ha voluto dare un senso alla propria (inaspettata) carriera politica, abbiamo deciso che l'Italia è un Paese di femminicidi e molestatori seriali. La mistificazione della realtà però ha un limite. Calm down.

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