Dopo la tassa di successione, il caso della proroga del blocco dei licenziamenti. Con Mario Draghi costretto in meno di una settimana a dribblare non uno, ma due diversi affondi che arrivano da un Pd ormai più di lotta che di governo. Una curiosa inversione di tendenza rispetto al recente passato, con una sorta di scambio delle parti in commedia tra Enrico Letta e Matteo Salvini. Se il leader della Lega ha infatti deciso di abbassare i toni, il segretario dem è invece entrato in una sorta di modalità Papeete, aprendo fronti su tutti i dossier più complicati e divisivi: dallo ius soli al ddl Zan, passando per la tassa di successione per i grandi patrimoni fino ad arrivare - nelle ultime ore - alla proroga del blocco dei licenziamenti. Tutti temi evidentemente incompatibili con una maggioranza allargata come quella che sostiene Draghi. Tanto che un ministro dem - e non è l'unico al Nazareno - inizia a pensare che Letta si sia messo in testa di indebolire il premier per provare - magari complice la partita del Quirinale - a votare nel 2022. Probabilmente Letta non strapperebbe una vittoria, ma avrebbe almeno la possibilità di riprendersi i gruppi parlamentari di Camera e Senato che ad oggi non controlla affatto.
L'ultimo scontro, dunque, è sul blocco dei licenziamenti. Dossier, in verità, su cui Andrea Orlando si è mosso con abilità. Il prolungamento della cassa Covid, infatti, il titolare del Lavoro l'aveva presentata con una sorta di blitz nel Consiglio dei ministri di giovedì scorso, con il premier che aveva sollevato qualche perplessità ma con un via libera di massima di tutti. Poi, nel giro di pochi giorni, la questione è diventata un caso politico, con Confindustria e sindacati a farsi la guerra, seguiti a stretto giro da una maggioranza spaccata tra i due blocchi Pd-M5s e Lega-Forza Italia. Così, ieri da Palazzo Chigi è filtrata l'intenzione di rimettere mano alla norma e trovare un punto di caduta meno divisivo. Orlando pare non abbia gradito, come buona parte del Pd. Tanto che il vicesegretario dem, Giuseppe Provenzano, fa sapere che «il compito del Cdm è decidere», altrimenti c'è da «pensare che chi è seduto lì debba fare il passacarte». Una neanche tanto velata frecciatina a un Draghi che continua a volere gestire in prima persona tutti i dossier più delicati. Lo ha fatto cambiando in autonomia i vertici della Protezione civile, della struttura commissariale per l'emergenza Covid e del Cts, i tre centri nevralgici nella gestione della lotta alla pandemia. Ma anche rimettendo mano ai Servizi o avocando a sé la gestione del Pnrr. La condivisione decisa proprio ieri mattina nella gestione dei 248 miliardi del Recovery fund, infatti, è solo formale. Con il premier che presiederà una cabina di regia che, di volta in volta, «ospiterà» i ministri competenti a seconda della materia trattata. Draghi lo ha definito uno schema a «geometrie variabili», ma che in realtà ha due elementi fortemente stabili: la sua presenza e quella del fidatissimo ministro dell'Economia, Daniele Franco, a cui spetterà il compito del monitoraggio finanziario e del collegamento con Bruxelles.
Davanti a un Pd che fa le barricate e allude a ministri ridotti a «passacarte», dunque, Palazzo Chigi tira dritto. E continua ad accentrare le decisioni che contano, tanto che proprio oggi pomeriggio potrebbe tenersi una riunione ristretta tra Draghi, Franco e il dg del Tesoro Alessandro Rivera, per valutare i candidati ai vertici di Cdp e Ferrovie. Ruoli chiave - il primo soprattutto - in ottica dell'attuazione del Recovery fund.
Una linea di condotta, quella dell'ex numero uno della Bce, che non è certo una sorpresa.
Draghi non ha mai fatto mistero - neanche nei colloqui con Sergio Mattarella prima di avere l'incarico - di quanto ritenesse fondamentale la «logistica» delle operazioni. Che, tradotto, significa non essere condizionato dalle pressioni dei partiti nelle nomine chiave, ma avere come primo punto di riferimento la competenza.
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