Il cecchino è il nemico più odiato in tutte le guerre, forse perché nella sua mira da fuoriclasse, da professionista, c'è qualcosa di profondamente umano, troppo umano. Non hai contro qualcosa di apocalittico, di meccanico, ma un volto indefinito, profilo, ombra, luce, sparo, morte. È l'occhio del re. È attacco e difesa. La sua storia è già nel nome.
In Italia gli sniper, i tiratori scelti, li chiamiamo «cecchini». Il termine risale alla Grande guerra ed è calcato su «Cecco Beppe», il nomignolo sarcastico con cui chiamavano l'imperatore Francesco Giuseppe. Naturalmente i tiratori scelti li avevamo anche noi. Ma quel modo di ammazzare da lontano, col cannocchiale, come si fa con le anatre, attendendo pazientemente la preda con accanto un boccale di birra, ci sembrava tipico di un nemico barbaro. Nel film di Monicelli (1958) sulla Grande guerra, i cecchini austriaci, provocati dal fante Alberto Sordi, gli fanno il piacere di bucherellargli una padella, in modo da poterci fare le caldarroste. In un'altra scena, Alberto e Vittorio Gassman, esitano a sparare a tradimento all'ignaro esploratore nemico intento a farsi il caffè. E perfino la filastrocca dei cecchini austriaci e tedeschi, per mancanza di rime, non menziona né noi né i serbi tra i nemici da abbattere («Jeder Schuss ein Russ; Jeder Stoss ein Franzos; Jeder Tritt ein Britt; Jeder Klasps ein Japs»; cioè «ogni sparo un russo, ogni colpo un francese, ogni tiro un britannico, ogni piattonata un giapponese»). Durante la Guerra fredda faceva scalpore in Occidente la propaganda sovietica sulle tiratrici scelte accreditate di decine di migliaia di morti tra le fila dell'Asse. Le donne mirano al cuore. Eppure proprio una produzione occidentale ha santificato il tiratore scelto come arma di difesa e di resistenza oltre ogni limite. Il titolo in italiano è Il nemico alle porte (Enemy at the Gates, 2001, di Jean-Jacques Arnaud). È una storia di sfida, duello, di tanti dubbi e di molto amore, per una donna. Lo sfondo è la battaglia di Stalingrado e un cecchino russo si confronta a distanza con il campione tedesco.
Tempi lontani quelli. Oggi ci sono simpatici, i cecchini. Videogiochi, manuali tecnici, film, ci hanno quanto meno fatto familiarizzare con loro. Non solo gli eserciti, ma ogni corpo di polizia municipale che si rispetti ha i suoi sniper, con tanto di distintivi magniloquenti. Un film del 1952 («Sniper», di Edward Dmytryk; in italiano Nessuno mi salverà) entrava nella psicologia di un serial killer che spara alle donne. Ma i film più recenti sul soggetto fanno lo stesso: ci mettono dal punto di vista di chi è addetto a uccidere per conto dello Stato. La vicenda del tragico Viale dei cecchini serbi nella guerra nell'ex-Jugoslavia è evocata nella ministerie tv «L'angelo di Sarajevo» (20-21 gennaio 2015, con Beppe Fiorello): qui il cecchino serbo più bravo e feroce, un ex campione olimpionico di tiro a segno, è infine ucciso dall'ex-moglie ed ex-collega bosniaca, che combatte come cecchina nel fronte opposto. Altri film, del genere «militairenment» (sfruttamento cinematografico e/o televisivo della violenza militare o poliziesca) sgrossano drammi psicologici e affettivi dei colli di cuoio, quelli che fanno il lavoro sporco per conto nostro, centrando rapinatori che si fanno scudo di innocenti (come nel film di Hong Kong «The Sniper», di Dante Lam, 2009) o i nemici dell'America - ad esempio un generale panamense pagato dai boss della droga («One Shot One Kill - A colpo sicuro» «Sniper», 1993, di Luis Llosa). Il più famoso è però «American Sniper» (2014, di Clint Eastwood), basato sulla biografia di Chris Kyle, un reduce dall'Irak. Vicende raccontate, ma non veramente approfondite. Come quella, tuttora ignota, dei cecchini che due anni e mezzo fa spararono in piazza Maidan a Kiev.
Il cattivo pian piano si è intrufolato nel nostro immaginario come una sorta di eroe, quasi fosse un campione dello sport, uno con quel qualcosa in più che fa la differenza. L'artista o il fantasista della guerra.
Non ha lo sguardo ambiguo di Lee Harvey Oswald, l'assassino di John Fitzgerald Kennedy, in una Dallas diversa da questa. Ci siamo illusi che fosse il nostro vendicatore o la nostra coscienza. Ma resta un angelo della morte.Virgilio Ilari
Storico e accademico Presidente della Società italiana di Storia Militare
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