«Una madre è un punto di riferimento costante per i propri figli», twitta Luigi Di Maio, e gli va bene che il ddl Zan non è ancora legge, altrimenti sai che guaio... Sarà l'ultima festa della mamma «politicamente scorretta»? Il tema della «nuova maternità» aleggia sul dibattito intorno alla norma che, nel tentativo di tutelare dall'odio chi si sente prigioniero in un corpo in cui non si riconosce, rischia di imbavagliare i rompiscatole dei cattolici e chi difende l'unico modello di famiglia che conosciamo fino a oggi, per dirla con Roger Scruton, «per riprodurre noi stessi in senso biologico, ma anche culturale, morale e politico». Se i politici avessero una visione anziché un tornaconto, capirebbero che la destinazione del navigatore è giusta, il percorso è sbagliato e tra chi guida c'è chi predica omofobia per due spicci su Youtube.
Quanto suonerebbe odiosa oggi la Rosi Bindi («è meglio che un bambino cresca in Africa piuttosto che con due uomini o due donne») ritratta su Ho molti amici gay (Bollati Boringhieri) dal giornalista di Skytg24 Filippo Maria Battaglia? Ci sono altre chicche come Palmiro Togliatti che dà del «pederasta» a André Gide perché si è ricreduto sul comunismo o Giancarlo Pajetta che si lamenta nel vedere la prima delegazione gay a Botteghe Oscure: «Prima le puttane, e adesso i finocchi, ma che c... è diventato questo partito?».
Certo, sono lontani i tempi in cui il Pci cacciò Pier Paolo Pasolini, osteggiò Nichi Vendola e costrinse una giovanissima Nilde Iotti ad abortire il figlio di Togliatti concepito nel solaio al sesto piano di Botteghe Oscure. La società cambia e la sinistra si riposiziona, guidata dal fiuto per i consensi a buon mercato. Difende gli operai e candida i padroni, fa antimafia di comodo, guarda ai terroristi come fratellastri illegittimi. Un bravo psichiatra farebbe l'esempio della madre disfunzionale, che prima manipola i nostri sensi di colpa poi ci offre la facile scorciatoia: «Ci vuole una legge». Come con il divorzio che osteggiava, come con l'aborto che aggira la maternità impensata con una semplice pillola, in solitudine, come fosse un mal di testa.
Quando Antonio Tajani teorizza che una donna si realizza pienamente con la maternità non dice cose molto diverse da Ritanna Armeni che, sul Foglio, ricorda «alle tante donne che oggi vogliono una maternità senza incertezze, sostenuta e protetta» che la loro è una libertà «malinconica e limitante». Non bastano tutte le carezze del mondo a consolare una donna che non può avere figli, ed è proprio su questo cliché della «maternità pragmatica» che la figura della madre surrogata - per soldi o per una indecifrata solidarietà - assume una funzione salvifica. Perché si fa garante del desiderio di un figlio diventato diritto e perché aiuta le famiglie omosessuali a riprodurre un modello certificato, che rassicura e soddisfa narcisisticamente chi ne era escluso, per ragioni biologiche o anagrafiche.
Ma quanti danni farà la maternità surrogata alla psiche di un figlio cresciuto senza una madre come «riferimento costante»? Lo scopriremo tra 40 anni, come per il Ddt o per l'amianto. Oggi sappiamo che, di fronte a un legame materno invalidante, perdiamo la cosiddetta «fiducia epistemica primaria», cioè il presupposto per cui l'altro, il prossimo, non potrà capire né accogliere i nostri bisogni.
Svuotare la famiglia significa regalare il mondo a una generazione di perfetti consumatori compulsivi, persone senza radici e senza identità, incapaci di legami duraturi, malinconicamente liberi di dire «mamma» senza provare niente.
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