Il male oscuro

A qualche settimana dal caos che ha contagiato il centro-destra nelle giornate del Quirinale è il caso di cimentarsi in una riflessione sul male oscuro di una coalizione che fallisce tutti gli appuntamenti decisivi.

Il male oscuro

A qualche settimana dal caos che ha contagiato il centro-destra nelle giornate del Quirinale è il caso di cimentarsi in una riflessione pacata sul male oscuro di una coalizione che è maggioritaria nel Paese ma nel contempo fallisce tutti gli appuntamenti decisivi. Si tratti di elezioni per città importanti come Roma o Milano. Oppure della Presidenza della Repubblica. E il male oscuro probabilmente è quel meccanismo perverso che spinge alcuni partiti a privilegiare i propri interessi rispetto a quelli della coalizione. I sintomi sono evidenti. Il più palese riguarda la sindrome da sondaggio che ha come conseguenza una sorta di competizione permanente. Una malattia che spesso condiziona la politica dei partiti, le scelte e relega in secondo piano gli interessi della coalizione se non quelli del Paese. Soprattutto, costringe le leadership ad avere strategie di corto respiro. Silvio Berlusconi, che pure introdusse tanti anni fa l'uso del sondaggio quotidiano nella politica italiana, non ne è mai stato schiavo.

Invece, ora - seconda conseguenza - questa strana patologia ha determinato una sorta di primarie permanenti nel centro-destra, con l'ossessione che chi racimolerà un punto in più alle prossime elezioni tra i partiti della coalizione avrà il diritto di guidare il governo. Una convinzione che determina paradossalmente più comportamenti da proporzionale, che da maggioritario specie in Giorgia Meloni.

Si tratta di una logica vincente per la coalizione, oppure no? I dubbi sono leciti, specie se si tiene conto degli ultimi insuccessi del centro-destra. E l'argomento si porta dietro un'altra questione di non poco conto: il candidato alla premiership più competitivo deve essere il leader del partito che raccoglie più voti, o la personalità (leader di partito o no) che rappresenta più la coalizione nella sua interezza e, magari, pesca voti anche al di fuori?

Inutile dire che un maggioritario virtuoso opterebbe per questa seconda ipotesi. Negli Stati Uniti i candidati vincenti di repubblicani e democratici alle presidenziali sono sempre stati nomi di confine tra i due schieramenti: Reagan, Clinton, i due Bush, Obama, lo stesso Biden. L'unico che ha avuto un percorso diverso è stato Donald Trump e si è visto com'è finita. Personalità simili sono stati anche i due personaggi che hanno incarnato il bipolarismo italiano, Silvio Berlusconi e Romano Prodi. E se il Cav oltre ad essere moderato ha guidato per 20 anni pure il partito più votato del centro-destra, il Professore fu scelto dall'Ulivo per la sua collocazione al centro negli equilibri di quell'alleanza (era un ex-dc) non certo per il numero dei voti. È la ragione per cui nel maggioritario le aree moderate esercitano sempre una sorta di egemonia in una coalizione. La questione si sta riproponendo ad un anno dalle politiche anche nel centro-destra. Berlusconi lo teorizza da sempre. Salvini lo ha capito: la sua scelta di entrare nel governo Draghi e la proposta di un partito Repubblicano sono il tentativo di guidare l'area più attenta ai temi della governabilità.

Giorgia Meloni, invece, sembra più attenta ai seggi che conquisterà Fratelli d'Italia, che non all'obiettivo comune del centro-destra di conquistare il governo del Paese. Al costo di restare all'opposizione (modello Le Pen). Magari sbaglio, magari no.

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