Non siamo terra di conquista

La scalata a Mediaset è un attacco dei francesi al sistema Italia. Ma è colpa dello Stato se le nostre imprese diventano prede

Non siamo terra di conquista

Il nazionalismo economico è un'illusione, ma il provincialismo finanziario è un crimine. Ce l'abbiamo messa tutta per impedire la crescita di grandi gruppi italiani. Mentre altri favorivano l'espansione continentale dei loro campioni noi spezzavamo le gambe ai nostri. Ce l'abbiamo messa tutta nel difendere una mastodontica televisione di Stato, riducendo l'area del mercato in competizione, come nel fare della nostra multinazionale telefonica un operatore dialettale, oberato dai debiti contratti da chi l'ha prima scalata e poi depredata.

Abbiamo passato anni a dire vuotaggini sulla convergenza fra operatori della televisione e delle telecomunicazioni, intanto evitando accuratamente che potessero farsi accordi capaci di generare la forza per partire dall'Italia e conquistare l'Europa. Bastava non essere nani per essere visti come giganti da fermare. Bastava essere grossi per essere considerati prede da spolpare. La convergenza la sta facendo un finanziere francese, comprando Telecom e Mediaset. Se analoga operazione fosse stata fatta in Francia i protagonisti sarebbero stati fermati. Come lo furono.

Quando una società si quota in Borsa non si limita a farsi finanziare dagli investitori, accetta anche che le proprie azioni saranno comprate e vendute fra alti e bassi. Più la società è contendibile, quindi anche scalabile, più i titoli sono appetiti. Naturalmente se funziona. Queste sono le regole del gioco, che deve essere aperto a tutti. Però ci sono anche le regole per tutelare il mercato e impedire che soggetti forti possano manipolarlo. Mediaset ha presentato un esposto, accusando Vivendi, sicché la palla passa alle autorità competenti. Il governo, per bocca del ministro Carlo Calenda, ha già fatto sapere che «il modo di procedere (di Vivendi) non è appropriato». Difendiamo il libero mercato, che deve essere libero anche da eventi inappropriati. Ma il grosso di questa faccenda viene ben prima e non si esaurisce nel duello borsistico. Da molti anni esiste un mercato unico europeo, ma noi continuiamo a ragionare come se le dimensioni delle nostre aziende debbano essere rionali. Così le indeboliamo, impediamo loro di crescere, le teniamo piccole con la pretesa di salvaguardare pluralismo e concorrenza, sicché poi ce le ciucciano via. Da noi anche i grandi sono piccoli, mentre i piccoli sono microscopici. Perderemo tutto, a beneficio dei cresciuti altrove, se non cambieremo andazzo.

Il nostro sistema bancario è in grado di esprimere soggetti capaci di crescere in un orizzonte continentale, ma noi caviamo loro il sangue per trasfonderlo in banche gestite in dialetto e fallite in diritto. Salviamo i banchieri, anziché la forza del credito, così coprendo le truffe fatte e promettendo ai truffati i soldi di altri. Il risultato è prevedibile.

Abbiamo un mondo politico popolato da tali disadattati al mercato che chiamano «investimenti» dall'estero gli acquisti che gli altri fanno in casa nostra. Per carità, li facciano, ma spesso non sono investimenti produttivi. Dovremmo eccellere e invece arranchiamo, il che capita perché non s'è voluto capire cos'è e cosa comporta la competizione globale. Gli italiani che lo hanno capito vanno alla grande.

Gli altri non devono restare ostaggi di prosopopee e piccinerie vernacolari. Nella competizione globale contano anche gli Stati, se governati consapevolmente e con idee chiare su quali sono gli interessi collettivi e indisponibili.

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