La crisi è qui. È reale, brucia, corrode e in tanti cominciano a farci i conti, soprattutto la notte, quando il sonno non arriva e ti batte in testa sempre la stessa domanda: e ora come faccio? La risposta spesso non c'è. Forse neppure interessa, perché alla fine ci si sta rendendo conto che di fronte a questa domanda sei dannatamente solo.
Non è che non si sa. I numeri stanno arrivando. La produzione industriale a marzo è scesa, rispetto allo scorso anno, del 29,3 per cento. Ad aprile si prevede una mazzata ancora più pesante: 45,9%. Questi sono i numeri delle grandi imprese. Sotto è ancora peggio. Si parla di 270mila negozi che già si sono arresi. È un contagio di bandiere bianche, di chi dice basta e chiude la serranda. È il deserto. È il nulla che avanza e si mangia tutto quello che trova davanti: partite Iva, posti di lavoro, storie, speranze, sogni, tradizioni di famiglia.
I numeri però non dicono tutto. Neppure le parole, perché quando ne parli sembra che cifre e filiere merceologiche siano qualcosa di immateriale. Non ti tocca. Quanti negozi hanno chiuso? Certo, la crisi è una brutta cosa. Fai un'espressione preoccupata e torni a occuparti di altro. Quello che la cronaca di giornata ti mette sul piatto. Hanno liberato Silvia? Adesso si fa chiamare Aisha. Bene, giusto così, la vita va avanti. Solo che questo nulla che avanza non è più una proiezione. È qui, sulla pelle e la carne delle persone. Non è che non se ne parla, ma è come se fosse lontano. È un po' come è successo con il virus. Non lo vedevi, poi la sorpresa: è a meno di un metro da te. C'è voluta la morte per sbatterci contro la faccia. Le bare, quelle in fila davanti agli obitori, con i cimiteri chiusi e i becchini che non sapevano come smaltire le ordinazioni. Le bare caricate sui camion militari davanti all'ospedale di Bergamo.
I morti ci sono. Pochi, ma purtroppo cresceranno e Dio non voglia che non sia un'altra forma di contagio ed è per questo che quasi hai paura a parlarne. Solo che non si possono chiudere gli occhi. Sono morti senza speranza. Nessuno di noi sa davvero cosa vuole dire, cosa pensi quando decidi di farla finita: un colpo alla testa e via. Le lettere che lasciano i suicidi, quando le lasciano, non riescono a farti sentire il buio. Sono venticinque da quando è iniziata la quarantena. Sono artigiani, commercianti e piccoli imprenditori che non hanno visto neppure uno straccio di futuro. Non è la scelta migliore, ma sta accadendo.
Di chi è la colpa? Non servono capri espiatori. È importante però dire le cose come stanno. Si chiama consapevolezza. Dobbiamo averla tutti. Questa crisi è qualcosa che non abbiamo mai visto. Il governo, la politica, sta discutendo sul «decreto rilancio».
L'impressione è che sia la solita giostra di promesse e speranze. Non ce lo possiamo permettere. Non è più tempo di illusioni. Non si può più dire «ci siamo» e poi lasciare solo, con i suoi debiti, chi non sa più come tirare su la saracinesca.
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