C'è un automatismo che guida l'orientamento della sinistra e dei media di quell'area dopo ogni sconfitta elettorale: dal giorno dopo cercano l'anello debole per far saltare l'equilibrio del nuovo governo. Nelle esperienze precedenti hanno sempre utilizzato l'ambizione di uno dei leader della coalizione del centrodestra. Lo fecero con Lamberto Dini, con Pier Ferdinando Casini e con Gianfranco Fini. In questa occasione, in mancanza di meglio, tentano un'operazione a rovescio, cioè mettere la premier «in pectore» Giorgia Meloni contro i suoi alleati, in particolar modo contro Matteo Salvini.
Per farlo usano tutti i mezzi: tirano in ballo il pomo della discordia, cioè le aspirazioni di Salvini per il Viminale; oppure, moltiplicano il numero dei ministri «tecnici» per paventare una riduzione del peso degli alleati nel governo. Addirittura, dopo 25 anni tornano a lusingare Umberto Bossi nel vecchio ruolo - per citare un D'Alema d'annata - di «costola della sinistra». All'epoca il Senatùr servì all'uopo per mandare in crisi il primo governo Berlusconi, ora può tornare utile per emarginare Salvini e fargli saltare i nervi. Del resto la locuzione di Machiavelli «il fine giustifica i mezzi» ha sempre ispirato l'agire di quei mondi: il fine resta la conquista del potere, i mezzi e le alleanze cambiano a seconda del momento. Naturalmente, visto che il gioco è vecchio come il cucco, è soggetto ad un fatale declino. Più o meno come l'ideologia: siamo passati dal socialismo «sol dell'avvenire» al faccione di Giuseppe Conte. L'alleato ambito, appunto, per tornare al potere.
Un declino che la sinistra sconta anche nella capacità di dividere il centrodestra. Anche perché più sei disorientato e più scambi lucciole per lanterne, specie se sei abituato a guardare la realtà attraverso le lenti dell'ideologia: come minimo ne hai una versione distorta. Se poi hai subìto una sconfitta talmente cocente da restarne scioccato al punto di desiderare di cambiar nome, la confusione è totale e paghi un deficit di analisi, rischi cioè di non comprendere la natura e l'equilibrio alla base del governo che sta per nascere.
Ora, per tornare alla realtà, le vicende interne al Caroccio hanno le loro dinamiche, il futuro ci dirà quali. Sugli equilibri interni al governo, invece, contano i gruppi parlamentari e quelli della Lega e di Forza Italia sono stati forgiati (al costo di perdere qualche consenso) nella logica della compattezza e della fedeltà ai leader. Né Salvini, né Berlusconi, infatti, volevano ripetere l'esperienza del governo Draghi, cioè avere delle delegazioni di ministri che perseguono una linea diversa da quella della casa madre. Ecco perché è difficile immaginare l'emarginazione di uno dei leader della coalizione, a cominciare da Salvini: simul stabunt, simul cadent. Questa è la realtà. E la prima ad esserne consapevole è proprio la Meloni che da quando ha cominciato a studiare da premier si muove, com'è nella natura del ruolo, con prudenza.
Poi certo c'è la dialettica interna: Salvini può reclamare il Viminale per poi, di fronte ad un no, puntare ad avere una compensazione negli equilibri interni al governo. Ma questo è nelle cose. Immaginare, invece, un suo isolamento come grimaldello per far saltare il governo è solo l'illusione di una sinistra che spera di avere in tempi brevi un'improbabile rivincita.
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