Tra poco non avremo più falliti né fallimenti. Sembra una buona notizia ma, in realtà, la notizia è un'altra. Il governo sta per varare una riforma in cui, tra le altre cose, ci sarà una variazione dei termini: al posto di "fallimento" si parlerà di "liquidazione giudiziale". Un cambiamento solo lessicale? In realtà a essere riformato è l'intero diritto fallimentare. Sul Corriere della sera Marco Rizzo parla "dell’ultima piccola rivoluzione del politically correct lessicale, dopo quelle che hanno investito le nostre infinite leggi, dove i ciechi sono diventati non vedenti e i sordi audiolesi". Ma la notizia positiva al momento sembra essere un'altra. Per la prima volta dal 2011 i fallimenti sono in diminuzione: secondo i dati di Infocamere nei primi undici mesi del 2015 sono fallite 12.583 imprese, il 4,8% in meno rispetto ai 13.223 del 2014.
Ma torniamo al cambiamento lessicale. Nella relazione che accompagna il disegno di legge si legge che l'intento è quello di allinearsi "a una tendenza già manifestatasi nei principali ordinamenti europei di civil law, volta a evitare l’aura di negatività e di discredito, anche personale, che storicamente a quella parola si accompagna.
Negatività e discredito non necessariamente giustificati dal mero fatto che un’attività d’impresa abbia avuto un esito sfortunato". Insomma, si vuole togliere quel marchio d'infamia da chi già è stato sfortunato. La cosa più sorprendente, però, è che la legge di base che disciplina i fallimenti è il regio decreto 19 marzo 1942.
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