Il rischio del disimpegno

La decisione del governo di fissare la data dei referendum sulla giustizia lo stesso giorno del primo turno delle prossime amministrative è una bella notizia.

Il rischio del disimpegno

La decisione del governo di fissare la data dei referendum sulla giustizia lo stesso giorno del primo turno delle prossime amministrative è una bella notizia, anche se, va detto, non si è mai votato per i Comuni con un calendario così avanti verso l'estate. Addirittura a scuole chiuse. Detto ciò, il problema ora è un altro sia per i referendum, sia per le elezioni amministrative: la consultazione, infatti, dovrebbe tenersi solo nella giornata del 12 giugno, il che metterà un'ipoteca pesante sulla possibilità che i referendum raggiungano il quorum del 50%. Come pure, vista l'affluenza registrata nelle ultime tornate elettorali, la percentuale dei cittadini che deciderà il voto delle città rischia di essere molto al di sotto del 50%. Ci sono anzi tutte le condizioni che alla prova dei fatti si riveli addirittura ridicola.

La legge prevederebbe che sia le amministrative, sia i referendum si svolgano in una sola giornata, ma è anche vero che basterebbe un decreto per allungare il tempo di durata delle votazioni a due giorni. Lo si è già fatto, ad esempio, per le elezioni amministrative del 20-21 settembre scorso, adducendo come motivazione lo stato d'emergenza per il Covid. Ora alla pandemia si è aggiunta anche la guerra in Ucraina, che è un'altra condizione straordinaria di non poco conto. E sarebbe davvero strano se il governo non la ritenesse tale visto che tra l'altro, per ovvi motivi, il conflitto toglierà spazio sui mezzi d'informazione alla campagna referendaria.

Ma il problema è più generale e si presta ad una serie di domande: la politica, usando questa parola in senso lato, deve fare in modo che il maggior numero di cittadini si pronunci su temi fondamentali per il funzionamento della giustizia nel nostro Paese, o no? Discorso che vale anche per il governo delle città. O deve essere complice dell'astensione e, quindi, del «disimpegno»?

La questione è tutta qui, al di là delle procedure e dei cavilli. Tutti i referendum che hanno cambiato la Storia e i costumi italiani si sono svolti tenendo aperti i seggi due giorni. Da quello che ha scelto la Repubblica, a quelli che hanno introdotto il divorzio e l'aborto, a quello sulla scala mobile, a quello che ha bloccato il nucleare, a quello che, per restare in tema, ha introdotto il concetto della responsabilità civile dei magistrati, disatteso poi a livello legislativo. Se questi referendum non fossero passati, avremmo un Paese completamente diverso. Magari peggiore.

All'epoca, poi, per consuetudine o per un dovere di partecipazione, alle urne si recava l'80% degli elettori. Oggi non è più così, per cui ci sarebbe più di un motivo per favorire l'affluenza al voto.

Sempreché la nostra classe dirigente sia interessata alla partecipazione e non pensi, almeno in una parte che avversa i referendum, che sia giusto utilizzare qualche artificio o stratagemma (appunto un voto relegato ad una sola giornata) in modo che non sia raggiunto il quorum. Espediente legittimo, ci mancherebbe, ma che avrà come conseguenza un ulteriore distacco dei cittadini dalle istituzioni e dalla politica.

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