Della debolezza, di cui i partiti hanno dato avvilente prova, si è già discusso molto. Della forza, e in particolare di quella necessaria a Mario Draghi per rimettere in moto il suo governo finito nella palude stigia del Quirinale, si parlerà invece da qui in avanti, in quella che, dopo la rielezione di Mattarella, viene annunciata dagli spin di Palazzo Chigi come «l'era dei due Presidenti», o «bis-presidenzialismo».
Il quesito è semplice: incassata la delusione per la mancata ascesa al Colle, il premier ne esce ammaccato o rinvigorito? Peserà di più l'umano sconcerto per la ferocia con cui la sua stessa maggioranza l'ha inchiodato a Chigi, o il desiderio di imporre di nuovo il suo «metodo» e il suo decisionismo? Seguendo la terza legge della dinamica: le due forze di verso contrapposto di Draghi e dei leader, genereranno immobilismo o movimento?
Tutti i notisti politici hanno riportato che Super Mario è fortemente improntato alla rivincita senza quartiere. Questi mesi, in cui per la prima volta è stato lui ad avere bisogno dei partiti in chiave quirinalizia, con conseguenti mediazioni al ribasso ed eccessiva cautela nell'azione di governo, ne hanno offuscato l'aura. Arrivato per trainare il Paese in panne, inizialmente ha corso spedito su un rettilineo, salvo poi incastrarsi nei tornanti angusti dei do ut des, dei rinvii, delle sensibilità da salvaguardare.
Oggi quel che lo aspetta è un terzo tratto di strada, il più difficile: zero zavorre e tante curve (pensioni, Pnrr con l'inflazione galoppante, scuola, legge elettorale, giustizia, energia, crisi Ucraina...), e rallentare non sarà più possibile. Il jolly della sosta se lo è già giocato all'Autogrill Quirinale. Ed è qui che si torna alla forza di Draghi che, per dirla alla Star Wars, si contrappone al «lato oscuro» dei partiti e della loro spietata tendenza all'autoconservazione ad ogni costo e al cannibalismo dei «salvatori» che essi stessi incoronano. La forza è sempre relativa, dipende dall'avversario. Oggi la politica è polverizzata, impegnata a divorarsi la coda per non morire, in un eterno ritorno di ricatti. Su queste macerie, il Draghi che anche questo Giornale ha invocato, sostenuto, apprezzato e infine rimpianto quando si è appannato, il Draghi senza nulla da perdere né da chiedere sembra invincibile e pronto all'implacabile vendetta. Ma i partiti, che oggi non paiono avere alcuna chance di porre veti, hanno dimostrato di saper architettare attentati e trappole. Davanti al diritto del più forte, oppongono l'arte dello strappo e il diritto del più furbo.
Ragion per cui, a Draghi non basterà la forza del lione machiavellico. Contro i lupi - che nei mesi di campagna elettorale diventeranno lupi mannari - dovrà essere anche volpe. Cosa in cui non difetta, dato che nel suo governo può contare su una falange di ministri fedelissimi che nei relativi partiti giocano ruoli non di secondo piano e fungono da camera di compensazione delle pressioni.
D'altronde, l'uomo non ha alternative a riprendere in mano il volante e a schiacciare sull'acceleratore, e pazienza se qualcuno attraversa sulle strisce. Le esitazioni gli sono già costate punti di gradimento e mugugni dai commentatori europei, da sempre suoi fan. La posizione di ostaggio politico è scomoda e logorante. Per questo dovrà approfittare dei due «semestri biancastri», l'anno che precede le elezioni, prima che i partiti inizino ad impazzire come cani tra i botti di San Silvestro, girando in tondo, ululando e azzannando. In questi mesi, c'è da giurare che Draghi non farà prigionieri e cercherà di recuperare la precedente determinazione.
Quella dell'albero solitario che, per Churchill, «se cresce, cresce forte».Senza più steccati né scuse, resta da vedere se si ergerà sui cespugli o si attorciglierà di nuovo su se stesso. Che la forza sia con lui, ne avrà bisogno come dell'acqua.
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