Una città nella città, con le sue regole, le sue fortificazioni e una giurisdizione autonoma. Si presenta così, a sei anni dalla sua occupazione, l’ex sede Inpdai di viale delle Provincie 196.
Siamo a due passi dalla centralissima piazza Bologna, a tre dalla stazione Tiburtina e dalla prima università di Roma. In questo palazzone di otto piani, diviso in due plessi comunicanti, oggi vivono più di 500 persone. Persone che, a quanto pare, alla privacy ci tengono parecchio. Così può capitare che un ragazzo come Fabio, arrivato per lavoro nella Capitale da pochi mesi, venga minacciato di morte. “I kill you, I kill you”, gli avrebbe urlato un inquilino dell’immobile, dopo averlo sorpreso a scattare una fotografia. Anche noi veniamo guardate con sospetto quando ci avviciniamo alla cancellata di ferro, perennemente sbarrata, che fortifica l’edificio. A squadrarci dalla testa ai piedi sono due marocchini che, in quel momento, stanno di vedetta. Sì, perché qui il controllo è capillare, con gli inquilini che, a turno, vestono i panni dei vigilantes e allontanano i curiosi (guarda il video).
Prendiamo coraggio e ci avviciniamo per fare qualche domanda. “Qui – ci dice uno di loro – abitano 150 famiglie e persone di tutte le nazionalità: italiani, marocchini, tunisini, eritrei, turchi, sudamericani”. Dopo un po’ riusciamo a parlare con il responsabile dell’occupazione, un uomo sulla cinquantina, uno dei pochi italiani (sei in tutto) che vivono lì dentro: “Il Comune non ha mai fatto censimenti, perché noi non siamo d’accordo con i loro criteri”. E cioè? “Vengono qua per decidere chi ha il diritto ad un alloggio e chi no, per noi, invece, il diritto ce l’hanno tutti”. L’unico requisito per poter abitare nel palazzone è quello di mettersi a disposizione della causa e cioè “lottare per la casa, scendere in piazza e manifestare”. Ogni volta che ce ne sia bisogno. Il rischio che lì dentro possa nascondersi qualche estremista non preoccupa il responsabile. “Da anni le politiche securitarie – afferma – sono rivolte contro i poveri, il terrorismo è una scusa, hanno ben altri sistemi per contrastarlo”. Insomma, “se le forze dell’ordine vogliono entrare devono farlo con la forza”.
La pensa diversamente il vicinato. In una delle palazzine contigue all’occupazione c’è chi dice che “dovrebbero almeno censirli”, perché con il rischio terrorismo non c’è da stare tranquilli. Mentre i commercianti di zona sono già corsi ai ripari. La vicina boutique, ad esempio, ha blindato la porta, messo doppi vetri e citofono, come fosse una gioielleria. Dentro ci lavora una ragazza che, dopo la brutta storia dello stupro avvenuto in un alloggio del palazzone, si tutela così. Anche perché, si lamentano un po’ tutti, “la via è buia, non c’è passaggio e le forze dell’ordine non si vedono mai”. Qualche vetrina più in là, un negoziante sulla quarantina, dice di esser sicuro del “giro di spaccio” che va avanti “sia all’interno che all’esterno dell’edificio”. Un altro esercente, invece, la mette più sul pratico: “Ma ti pare che io pago le bollette e loro no? Non è giusto”.
Non sappiamo cosa ci sia davvero dietro quella cancellata inespugnabile, né quale sia il tenore di vita di chi abita negli alloggi ricavati dagli ex uffici Inpdai. A noi, infatti, non è stato concesso di entrare. Si può accedere solo con il lasciapassare del consiglio degli occupanti: una specie di organo direttivo, di suprema autorità, che regola in ogni aspetto il mondo al di là del cancello. Eppure, qui, in molti sostengono che chi vive nell’edificio non se la passi poi così male. “Guardate quante antenne paraboliche ci sono sul tetto, io la pay tv non me la posso mica permettere, loro sì”. E c’è anche chi racconta di aver intravisto dalla propria finestra, che affaccia proprio sul cortile interno dell’edificio, “un enorme televisore al plasma”. Un aneddoto che ricorda molto la storia di un’altra – ormai ex – occupazione, quella di via Curtatone. Dopo lo sgombero, negli appartamenti sono stati ritrovati maxi schermi al plasma, una pelliccia di visone e persino del denaro contante. Sembra pure che gli inquilini avessero allestito una specie di bed and breakfast abusivo.
Qui, invece, un vecchio residente sostiene che ci sia addirittura una panetteria: “Fanno pane e cornetti, non so a chi li vendono - insinua - ma c’è un furgone che ogni mattina viene a ritirare le scatole”. Di sicuro sappiamo solo che quelle mura rappresentano l’ennesima promessa tradita. Quella di un cambiamento che, nella Capitale, resta uno slogan sbiadito sui manifesti.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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