Schiaffo dei giudici all'agente: via per un vecchio tatuaggio

La vicenda di Arianna, poliziotta con tanto di encomio, è particolarmente surreale. Il tatuaggio non c'è più: se lo è fatto togliere proprio per diventare agente di polizia

Schiaffo dei giudici all'agente: via per un vecchio tatuaggio

Il 16 ottobre dell’anno scorso, la poliziotta Arianna Virgolino era libera dal servizio quando a Casalpusterlengo scoppiò un mezzo finimondo, con sudamericani ubriachi che dopo essersi picchiati tra di loro si scagliavano contro i passanti. L’agente Virgolino intervenne, chiamò in aiuto i colleghi, in qualche modo riuscì a portare a bada una situazione esplosiva, e per questo il questore Marcello Cardona la candidò a un encomio. Ma la brava poliziotta Virgolino non esiste più. Esiste una ragazza disoccupata e arrabbiata, una poliziotta cui una sentenza del Consiglio di Stato ha tolto pistola e distintivo. E tutto questo per un tatuaggio che non ha più.

Arianna è una delle decine, forse centinaia, di poliziotti e carabinieri che dopo avere vinto un concorso, avere giurato e indossato la divisa, sono stati cacciati per colpa di un tatuaggio, in base alla legge che non consente l’ingresso nelle forze di polizia a chi ha tatuaggi visibili con la divisa estiva. È una norma figlia del tempo in cui i tatuaggi erano roba da carcerati. E infatti ultimamente numerose sentenze avevano consentito l’arruolamento ai portatori di piccoli decori anche in zone visibili come i polsi, l’avambraccio, il collo. Ma ora il Consiglio di Stato ha chiuso le porte. Tutti fuori, anche agenti e carabinieri che nell andirivieni dei ricorsi erano ormai entrati in servizio.

La vicenda di Arianna, ma anche di altri nelle sue stesse condizioni, è particolarmente surreale. Perchè il tatuaggio non c’è più. Se lo è fatto togliere proprio per diventare poliziotta, sottoponendosi a lunghe, costose e dolorose sedute di chirurgia. Le fotografie documentano le fasi del percorso. E d’altronde le cliniche per la rimozione dei tatuaggi hanno da sempre tra i loro clienti preferiti gli aspiranti alle forze dell’ordine.

Adesso sul polso di Arianna si vede a malapena una cicatrice. Ma per i giudici amministrativi non cambia niente. Si appellano al brocardo latino “tempus regit actum” per sostenere che ciò che conta è che al tempo in cui ha fatto la dimanda, la ragazza il tatuaggio lo aveva. Non conta che se lo sia tolto, che abbia giurato, che abbia dimostrato con i fatti di essere una buona poliziotta. Niente da fare, “tempus regit actum”.

Arianna però non si arrende. Sostiene che, come al solito quando entrano in ballo i tribunali, la legge non è uguale per tutti, e manda foto di colleghi e colleghe che indossano tranquillamente l’uniforme da cui sbucano evidenti decori dell’epidermide. E racconta anche che una delle sezioni del Consiglio di Stato più inflessibili contro i tatuaggi ha tra i suoi giudici un consulente dei vertici della polizia.

Ma le sentenze ormai ci sono.

E insieme a ingiustizie e conflitti di interessi raccontano della fatica dello Stato a adeguarsi ai tempi, rassegnandosi al fatto che per una intera generazione di giovani italiani i tatuaggi siano normali quanto lo smartphone e la discoteca. Ed escluderli a priori dalla possibilità di servire lo Stato non sia un buon servizio nè a loro nè allo Stato.

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