L'ultima sentenza è del 13 luglio, Tar del Lazio: un altro sogno da poliziotto buttato nel cestino, un giovane italiano che con il suo tatuaggio era stato arruolato nell'esercito, aveva fatto i suoi quattro anni di naja, aveva fatto il concorso per accedere alla Ps riservato agli ex militari. E si era visto scartato per colpa di quel piccolo tatuaggio sul polso, cinque centimetri per uno di altezza, mezzo cancellato dal tempo e dal laser. Poco importa, per il Tar: «Risulta incontrovertibilmente la visibilità dei tatuaggi, ancorché in fase di rimozione, in parti del corpo non coperte dall'uniforme». Ricorso respinto, dunque. Sull'onda di una linea dura che, dopo alcuni anni di apertura, il Consiglio di Stato il 9 marzo scorso aveva imposto sul delicato rapporto tra uniforme e tatuaggi, «anche se di dimensioni ridotte e in corso di rimozione»: tolleranza zero, a meno che la zona di epidermide decorata non sia così intima da non esporsi neanche in maglietta da ginnastica. Chi ha ceduto alle lusinghe dell'ago e dell'inchiostro si trovi un altro lavoro, anche se tutto il resto dice che sarebbe un ottimo carabiniere e poliziotto.
Cosa abbia convinto il Consiglio di Stato nel marzo scorso, nel pieno del lockdown, a varare una linea rigida contro i tatuaggi è un mistero. Perché se è vero che qualche decennio fa, quando i tatuaggi erano patrimonio dei marinai e dei galeotti, il divieto aveva un senso ovvio, è altrettanto ovvio che i tempi sono cambiati. E che in una qualunque piscina il numero dei maschi e delle femmine under 30 con la pelle intonsa si conta su una mano. Sul pregio estetico di buona parte dei manufatti si può dissentire, ma pensare oggi che un tatuaggio sia un marchio d'infamia o di devianza ha ancora senso? Eppure le leggi delle forze dell'ordine continuano a essere severe: non si può arruolare chi ha qualcosa che spunta dalla divisa estiva, o anche solo dalla tenuta ginnica. A tollerare un po' di più è solo la polizia penitenziaria, che chiede che il tatuaggio non sia sintomo di «personalità abnorme».
Negli anni scorsi, alcune sentenze avevano allentato il rigore delle interpretazioni. D'altronde se con nove tatuaggi si può fare il ministro delle politiche agricole (Gian Marco Centinaio, Lega), se con un ragno disegnato sul polso si può reggere il ministero dello Sviluppo economico (Carlo Calenda, «ma ero ubriaco») perché con un'aquila sull'avambraccio non si può fare ordine pubblico, e con il nome della figlia sotto il polso non si può dare la caccia ai criminali?
L'andirivieni di sentenze ha prodotto situazioni surreali. Una giovane donna, S.A.,ha scritto al Giornale per raccontare il suo dramma: nel 2017 fa il concorso per entrare in polizia, supera la preselezione, supera le prove fisiche ma alla visita salta fuori la macchiolina sul polso: «Il nome di mio zio, morto quando avevo diciott'anni». Non si vede quasi niente, perché S.A. ha fatto sette sedute di laser, ma la commissione la boccia. La donna ricorre al Tar che le dà ragione, così viene dichiarata idonea e mandata come allievo agente alla scuola di Peschiera. Passa il corso, fa il giuramento, riceve pistola e distintivo. Ma intanto il Dipartimento della Ps ricorre al Consiglio di Stato contro S.A. e tutti gli altri tatuati. E vince. Via pistola e distintivo, si torna a casa.
Pazienza se intanto la collettività ha speso migliaia di euro per addestrarli. Come scrive il Consiglio di Stato respingendo il ricorso di un aspirante carabiniere, il divieto di tatuaggi visibili «risponde a evidenti esigenze operative nonché a palesi ragioni di sicurezza personale». Quali?
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