Qualunque sia l'esito di un voto va rispettato. È l'abc di ogni regime democratico. Detto ciò, non si è mai vista una congiura contro una consultazione referendaria come quella che è stata consumata ai danni dell'appuntamento di ieri. Ecco perché nessuno si faceva illusioni sull'epilogo. In realtà, più che di una congiura, si è trattato di un meccanismo di autotutela del «sistema». Un «sistema» ben più complesso di quello descritto da Palamara perché non riguarda solo procure e tribunali, ma il Palazzo nel suo insieme. All'operazione che ha affossato - non sconfitto, visto che non hanno vinto i No - i referendum sulla giustizia, hanno partecipato un po' tutti, perché l'argomento investiva la magistratura, cioè il Potere che ha dominato gli ultimi quarant'anni di vita repubblicana, che ha liquidato intere classi dirigenti ma ne ha risparmiate anche altre verso le quali ha maturato un credito. È andata, quindi, in scena una tragicommedia che ha due vittime: la democrazia e il popolo. Visto, e ci mancherebbe altro, che nessuno si è sognato di dire dopo il risultato che il nostro sistema giudiziario è perfetto o che i magistrati godono della fiducia dell'opinione pubblica, si è creata una situazione paradossale: c'è un voto di cui naturalmente va preso atto, ma che fa a botte con l'umore del Paese. È esattamente la miscela esplosiva che allontana i cittadini dalle istituzioni.
Un problema che purtroppo, a quanto pare, non interessa al Palazzo. Tant'è che tutti hanno fatto la loro parte per esorcizzare l'appuntamento. La Consulta ha bocciato i quesiti con maggiore appeal, cioè i più semplici, che avrebbero trainato gli altri: da quello sulla droga, a quello sull'eutanasia, a quello sulla responsabilità civile dei giudici. Il governo ha visto bene di fare svolgere la consultazione solo il 12 giugno e basta guardare la storia dei referendum in Italia per scoprire che, salvo poche eccezioni, la durata della votazione su uno o due giorni pone un'ipoteca pesante sul raggiungimento del quorum. L'informazione si è voltata dall'altra parte, a cominciare dalla Rai che per l'occasione ha mandato in soffitta la «par condicio». E l'art. 48 della Costituzione, quello che considera il voto «un dovere civico», è stato parafrasato da alcune cariche istituzionali e dal vertice del Pd in modo tale che la tanto vituperata astensione si è trasformata in un diritto. Solo che hanno esagerato e i cittadini per un effetto di trascinamento non sono andati a votare neppure per le elezioni amministrative (l'affluenza è stata bassa). Del resto, come avrebbero potuto se in questa campagna elettorale non è stata assordante la propaganda ma «il silenzio». Talmente rigoroso ed ermetico che ieri tre quarti degli italiani erano all'oscuro dell'appuntamento elettorale.
Ultima riflessione. Da qualche anno i cittadini disertano le urne e le nostre istituzioni elettive hanno un «gap» di partecipazione.
All'indomani di ogni elezione c'è un allarme generale. In questa situazione utilizzare l'astensione, cioè la patologia, come strumento per affermare la propria opinione in politica può rivelarsi pericoloso. Magari si vince. Ma muore il paziente. Appunto, la democrazia.
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