Nel ring della politica il Pd si muove come un pugile tramortito che rimbalza da una corda all'altra mulinando pugni a vuoto dinanzi a un avversario che lo osserva senza alzare un dito. Non è cavalleria sportiva: il match è già finito con le elezioni dello scorso settembre. A oltre quattro mesi dal ko incassato dal segretario dimissionario Letta, i dem si sono avvitati in sterili bizantinismi per definire le primarie del 26 febbraio. Un ginepraio di norme e interpretazioni viste con sgomento dentro lo stesso partito come segno dell'«impazzimento» di una classe dirigente allo sbando. Incredula di aver perso il potere dinanzi al verdetto popolare e taciturna sullo scandalo Qatargate, tutto interno alla sinistra di esportazione a Bruxelles. Se il Pd boccheggia, il resto dell'opposizione non se la passa benissimo. Il Movimento 5 Stelle si è ritagliato il primato virtuale nella minoranza promettendo sussidi e mance anche a livello regionale. Il Terzo Polo di Calenda non riesce a monopolizzare il fronte antigovernativo mentre Renzi, impegnato a pareggiare i conti con i pm che l'hanno braccato, si tiene pronto per il prossimo giro elettorale. Ci provano tutti, ma non ci riescono, diventando alla fine i migliori alleati degli avversari da abbattere. Un'opposizione feroce a parole e nel cavalcare paure retrò come il fascismo e le gabbie salariali, ma incapace nei fatti di dare del filo da torcere a Palazzo Chigi.
Si sono accontentati di trascorrere i 101 giorni del governo Meloni alla ricerca spasmodica di segnali di logoramento dell'esecutivo del centrodestra. Il Pd, più di tutte le altre forze di centrosinistra, aveva cullato il sogno di un'implosione dell'esecutivo con ritorno quasi immediato alle urne, vagheggiando una convivenza impossibile tra Fratelli d'Italia, Lega e Forza Italia. Ad ascoltare toni trafelati e voci rotte dall'emozione, la Meloni sarebbe dovuta cadere in continuazione: dalla disputa sulle accise sui carburanti, ai distinguo garantisti sulla giustizia alla fisiologica stanchezza verso la guerra infinita sul fronte ucraino. Anche sulla questione Ong, è bastato respingere qualche ardito emendamento leghista di bandiera per intravedere il distacco definitivo del Carroccio. Senza contare quei retroscena su Fratelli d'Italia dove il mal di pancia di un colonnello o la temeraria proposta di legge contro gli atti osceni sarebbero la spia di un partito sull'orlo della deflagrazione. Riconosciuto che Giorgia Meloni abbia avuto momenti di difficoltà, questo non è avvenuto di sicuro per mano dei suoi avversari politici.
Non resta che assistere al fenomeno di un'auto-opposizione interna alla stessa maggioranza che, blindata dal punto di vista numerico, può consentire alle proprie anime di distinguersi sui temi identitari senza perdere di vista l'obiettivo finale di guidare il Paese. Questa non è una novità assoluta per l'Italia dove decine di esecutivi, nella Prima Repubblica, si facevano e disfacevano al riparo di una Dc che si riassestava ogni giorno pur rimanendo ospite fisso di Palazzo Chigi. Altri tempi però.
Nonostante lo sbandierato imprinting democratico, la sinistra ha sempre riconosciuto a fatica la legittimità degli altrui governi. Ma quando un'opposizione in crisi nera non lascia il segno su nulla, è meglio una maggioranza che discute rispetto a una compagine bulgara che sa solo alzare la mano in aula.
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