La verità ti renderà libero, ma solo quando avrà finito con te. Sergio Mattarella guarda quel muro ocra dove due carabinieri stanno posando una corona di fiori. È lì, in via Caetani, a metà strada tra Botteghe Oscure e piazza del Gesù, che fu parcheggiata la Renault rossa. Dentro, nel portabagagli, c'era il corpo accartocciato di Aldo Moro. Era il 9 maggio del 1978. È passata una vita. Sulle spalle curve del presidente quella storia ancora pesa. Nessuno è riuscito a metterci un punto. Non finisce, non trova requie, sembra quasi impossibile gettarle sopra una manciata di polvere. Lasciate che i morti seppelliscano i morti. Invece no. I morti non hanno trovato giustizia e i sopravvissuti non hanno detto tutto. Chi sa, parli. Le parole non arrivano mai. In troppi stanno ancora qui a dire: né con lo Stato né con le Br. Allora non resta che prenderne atto. È quello che fa Mattarella. «Ci sono ancora ombre, spazi oscuri, complicità, non pienamente chiariti».
La verità è quella che aspettano i familiari delle vittime. È a loro che, con un'intervista su Repubblica, si rivolge il presidente. «Cittadini inermi colpiti con violenza cieca, oltre cento gli uomini in divisa che hanno pagato con la morte la fedeltà alla Repubblica italiana. Magistrati, docenti, operai, dirigenti d'azienda, studenti, giornalisti, uomini politici, sindacalisti. Nessuna categoria manca all'appello di una stagione in cui il terrorismo, di varia matrice, ha preteso di travolgere la vita delle persone, inseguendo progetti sanguinari». Non ci sarà. Non avremo mai la verità. Allora, per mettere un punto, non resta che andare a prendere chi non ha chiuso i conti con la giustizia, i latitanti, ovunque siano. Sono volti che hanno ormai le stesse rughe di Mattarella. Si possono perdonare i vecchi? Non si sa, ma prima devi comunque prenderli, uno a uno. Il perdono non è un affare di Stato. Il perdono è questione di cuore, personale, intimo, imperscrutabile. Lo Stato ragiona di grazia, di indulto o di amnistia. È una scelta politica e chissà se ci sono le condizioni. Non sembra. Non sembra ancora. La realtà è che quegli anni di piombo non abbiano insegnato nulla. Sangue su sangue. Odio contro odio. Trama per trama.
Mattarella la parola fine vorrebbe scriverla, ma non dipende tutto da lui. C'è qualcosa in questo maledetto Paese che non finisce di avvelenare il sangue. È tuttora nelle vene di tanti vecchi, che non rinnegano, non ripensano, non chiariscono, non fanno passi indietro. Non ci sono però soltanto loro. Quella guerra civile si è trasmessa da padre in figlio, da nonni a nipoti, come un'eredità, come una maledizione, come un patrimonio ideologico. È ancora qui e coinvolge, come fosse ieri, chi quegli anni non li ha conosciuti. Lo Stato non riesce a chiudere e il Paese non è pronto. La ferita è sempre aperta.
Il sospetto è che la democrazia si fa fatica ad amarla fino in fondo. Tanti la rivendicano, ma poi la svuotano dei valori che ci sono dentro. La vogliono diversa, un po' più autoritaria o un po' meno occidentale, senza l'odore dei soldi, del capitalismo, puritana, rivoluzionaria, dove i voti non si contano ma si pesano. È una democrazia giusta solo se a vincere sono quelli che si considerano buoni e migliori. Se questo non avviene allora bisogna ricorrere all'ostracismo: tu non sei degno, non hai diritto di cittadinanza. Questo modo di pensare è la sottile eredità di quei lontani anni '70. È la vittoria culturale di chi allora predicava la rivoluzione. Non sparavano, ma insegnavano. Le loro lezioni sono tornate di moda, più di quanto si pensi. Le loro teorie, sostengono, non erano sbagliate. È l'azione che ha fallito: le velleità, le speranze, quella banda di giovani sciagurati che ci ha creduto e ha preso la strada della violenza. Non è colpa degli intellettuali, ma di una banda di assassini improvvisati. Le idee restano, vanno salvate e tramandate. I «cattivi» restano comunque gli altri. È per questo che Mara Cagol, la moglie di Renato Curcio, è la santa eroina delle Brigate Rosse. La sua storia pasionaria va raccontata nelle scuole, come esempio di coraggio e ideologia, con la sola accortezza di non seguire alla lettere le sue imprese. Mara Cagol ha pagato con la vita la sua rivoluzione, la guerra alla democrazia. Le Brigate rosse sono state sconfitte. Quello che invece resta è la sua leggenda, che incarna un pensiero mai davvero ripudiato.
È una lettura opposta a quella di Sergio Ramelli. Ramelli era uno studente di 19 anni militante del Fronte della Gioventù. Fu ucciso nel 1975 con un colpo di chiave inglese alla testa. Gli aggressori erano di Avanguardia operaia. Erano anni in cui venivi ucciso solo perché indossavi le scarpe o il giubbotto sbagliato. Questo valeva per gli uni e per gli altri. Solo che per Ramelli non è ancora arrivato il riconoscimento della pietas. La sua colpa non è la lotta armata. Non l'ha mai fatta. Era solo un ragazzo che simpatizzava per l'altra parte. Non ha mai avuto un ruolo da protagonista come Mara Cagol. La sua colpa è essere diventato un simbolo. Allora, se si chiede di raccontare la sua storia nelle scuole la risposta è: no, era un fascista. E non importa che passasse lì per caso.
Forse è per questo che diventa difficile scrivere la parola fine. Ci sono troppe ombre su quegli anni. Cosa è successo a Piazza Fontana? Chi ha coperto i terroristi? Chi ha mosso i giochi del rosso e del nero? Chi ha sparato a via Fani? Perché Moretti non ha capito che con le rivelazioni di Moro su Gladio aveva in mano una bomba in grado di far saltare la democrazia? Chi ancora tace, cosa sta nascondendo? Queste sono solo alcune delle domande che meriterebbero una risposta.
Anni di indagini, processi e commissioni parlamentari d'inchiesta non hanno svelato ciò che non può essere svelato. È che nessuno vuole davvero sapere. Non interessa la verità, quelle che contano sono ancora le bandiere.
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