È invalso l'uso, in occasione di tragedie collettive che ci commuovono, di chiedere amareggiati «dov'era Dio?». Va da sé che, se la sfortuna si accanisce sugli indù accalcati su un treno o sui musulmani schiacciati dalla ressa alla Mecca, nessuno si sogna di chiederne conto a Visnù o ad Allah. L'ottimo Damascelli ha certo ragione a fare come i papi che, in visita ad Auschwitz, si sono lamentanti con Dio, inaugurando l'uso di cui si è detto.
Ma la Bibbia è un libro molto corposo e vi si può trovare sia l'affermazione di sovranità assoluta di Jahvé che il lagnarsi di Giobbe a proposito di un Dio dalla mano pesante. Da notare che proprio Giobbe, perseguitato dalla sfortuna e ridotto ai minimi termini, trova in Dio il suo difensore quando gli amici cercano di dimostrargli che la colpa deve essere per forza sua. No - dice Dio - Giobbe ha ragione. Tuttavia noi cristiani sappiamo che la Bibbia consta di due parti: il Vecchio e il Nuovo Testamento. È nel Vecchio che la vita terrena ha un valore assoluto, e chi la perde anzitempo si considera non benedetto da Dio. Nel Nuovo la musica cambia. La vita di Gesù Cristo è stata felice? È stata lunga? Ha avuto un happy end? Erano i sadducei quelli che non credevano in una vita futura e migliore; non a caso Gesù li liquida con poche battute («voi siete in errore»), riservando tutte le sue spiegazioni e dispute ai farisei, che alla beatitudine eterna credevano.
È tipico della mentalità corrente vivere come se Dio non ci fosse e ricordarsi di Lui solo quando le cose vanno male. È umano. Ma troppo umano. E forse anche (absit iniuria verbis) infantile. La Chiesa un tempo insegnava che questa vita è valle di lacrime, la vita «vera» è nell'aldilà: beata, eterna. Quella presente serve solo a guadagnarsela. Mi si passi un esempio storico. Una che con Dio aveva grande dimestichezza, essendo una delle più grandi mistiche di tutti i tempi, era santa Teresa d'Avila. Ai suoi tempi il re Sebastiano del Portogallo approntò una spedizione militare in Nordafrica per farla finita con le incursioni musulmane che da lì partivano. Ma l'impresa finì in un disastro e pure il giovane re cadde in battaglia, il suo corpo non si trovò mai. Lo sgomento nella penisola iberica fu enorme e Santa Teresa se la prese con Dio: come aveva potuto permetterlo? Da che parte stava, con gli islamici? Perché non aveva dato la vittoria ai suoi? Cristo le rispose dicendo che aveva trovato quei caduti cristiani degni di entrare nel suo Regno. Morale: a Dio interessa più la vita eterna, non la terrena che è caduca, sempre troppo breve, spesso malata e sfortunata.
Certo, nessun prete predica più i Novissimi, tra cui c'è il Paradiso, perciò il salto nel buio ci spaventa. Ma, quando qualcuno che ci è caro muore anzitempo (secondo noi), chiediamoci se non stia meglio adesso. Questa è la speranza portata da Cristo: Dio è padre buono e tutti i nostri capelli sono contati. E la Speranza è una delle tre virtù teologali. D'altra parte, qual è l'alternativa? Se ne erano accorti anche i pagani che «chi muore giovane è caro agli dèi». Certo, quando il fulmine cade vicino è difficile filosofare.
Ma, asciugate le lacrime, la riflessione dovrebbe tornare. È stato Cristo stesso a dire: «Venite a me, tutti voi che siete oppressi, e io vi darò ristoro». Chi, asciugate le lacrime, si ricorda di questo sta meglio. Provare per credere.
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