Virus, i racconti dall'inferno: "Aveva le orecchie giallastre..."

Il "denuncia day" a Bergamo: i parenti delle vittime consegnano 50 esposti in procura. Il comitato "Noi denunceremo": "Vogliamo giustizia"

Virus, i racconti dall'inferno: "Aveva le orecchie giallastre..."

Sono storie. Colpiscono come un dardo. Sconvolgono. Sono i nomi dei cinquanta residenti della Bergamasca che oggi si sono presentati in procura per consegnare le prime 50 denunce sulla morte di loro cari nella speranza di "cercare la verità" e "avere giustizia". Armando, Ermenegildo, Renato, Ida, Antonio, Angelo e tutti gli altri. Uccisi dal virus e chissà, ma questo dovranno stabilirlo i pm, da eventuali errori nella gestione della pandemia. Sono le vicende di chi ha visto salire una banale febbre, di chi ha subito l’aggravarsi del morbo, chi è rimasto senza fiato, chi dall’ospedale telefonava a casa e piangendo pregava i parenti "di portarlo via". Non voleva morire solo.

L’incubo di Monica inizia il 23 febbraio, quando il marito Armando inizia ad mostrare una “febbre altalenante”. Il medico suggerisce la tachipirina, ma il termometro non scende. “Decido di chiamare il numero coronavirus - racconta la donna - ma mi assicurano che non avendo tosse e non avendo frequentato cinesi non era coronavirus”. In breve tempo si ammala anche lei, mentre la febbre del marito sale fino a 40,2 gradi. Qualcosa non quadra. I due vanno all’ospedale Giovanni Paolo di Bergamo senza il consenso del medico. “Mio marito aveva 66 anni era un artigiano ed era nel pieno del attività lavorativa". Un uomo “pieno di vitalità e forza”, che però sta per iniziare una vera e propria “agonia”. Prima il rapido peggioramento, poi la terapia intensiva. Armando viene intubato e i dottori provano tutte le cure ‘off label’ (“ho capito che mio marito stava facendo da cavia”). Infine, il 27 marzo, alle 10.30 arriva la chiamata: è morto. "Sono riuscita a vederlo - ricorda Monica - non era più lui. Ho cercato in viso un piccolo porro che aveva sotto un occhio per essere sicura. Era invecchiato di 20 anni dopo quasi un mese di terapia intensiva". Monica è convinta che “se non fosse stato obbligato a stare a casa per una settimana i suoi polmoni non sarebbero arrivati a quel deterioramento e poteva essere salvato”. Per questo chiede giustizia.

Ospedale Bergamo

Ci sono poi i morti nelle Rsa, altro capitolo di una storia ancora tutta da scrivere. Maria Consuelo racconta che quando a fine febbraio iniziarono a circolare le notizie sul virus e “a noi parenti ci fu imposto di indossare le mascherine”. Eppure “notai che infermieri, medici e personale delle pulizie non indossavano nessun Dpi”. “Mi ritrovai a parlare con il personale del reparto di papà - continua - e alla domanda perché io con la mascherina e loro no mi sentii rispondere che al momento non era ancora obbligatorio, che addirittura avevano avuto disposizione di non indossarle per non spaventare gli ospiti e sottovoce mi dissero che comunque le mascherine non erano disponibili per il personale”. Non solo. Un giorno, “mentre attendevo l’infermiera al cancello vidi arrivare una Croce Rossa dove scese un operatore in tuta bianca, mascherina, guanti e occhiali: si avvicinò al cancello e al citofono chiese dove portare un paziente Covid che aveva con sé”. In questo contesto, le condizioni di Ermenegildo peggiorano. Il 3 aprile, alle 2.25 di notte squilla il telefono: “Papà è deceduto”. “Non l'ho più rivisto - ricorda Maria - perché fu subito messo in una bara e portato al cimitero in attesa di cremazione". A distanza di un mese ancora non sa se la causa del decesso è stato il virus oppure no. Nesuno l'ha sottoposto a tampone.

Coronavirus nel mondo

Scorrendo le denunce, emerge che molti dei racconti ruotano attorno all’ospedale di Alzano Lombardo, chiuso e poi subito riaperto. Il 24 febbraio Monia accompagna suo padre Angelo al “Pesenti Fenaroli” per una visita dall'urologo, confermata nonostante il caos. “Ci siamo accorti che in ospedale circolava moltissima gente - racconta la donna - Nessuno, a parte gli infermieri, aveva la mascherina, noi compresi. Fatta la visita tornammo a casa e il pomeriggio del giorno seguente, 25 febbraio, sia mia mamma che mio papà iniziarono a presentare sintomi riconducibili al Covid: modo mio papà aveva la febbre a più di 39°, dissenteria, difficoltà respiratorie, mal di gola e perdita di olfatto e gusto". Due giorni dopo viene “intubato e portato alla Poliambulanza di Brescia dove è morto il 13 marzo 2020”.

Noi denunceremo presentano gli esposti in procura a Bergamo
"Noi denunceremo" presenta gli esposti in procura a Bergamo (Fotogramma)

Qualche settimana prima, quando ancora di Covid non si parlava, una infermiera di Seriate aveva informato Monia che “in questo reparto è pieno di polmoniti”. Che il virus circolasse da giorni in Lombardia sembra ormai scontato. Nessuno lo sapeva, ma intanto si insinuava nei nosocomi, in casa, nelle famiglie. Forse è per questo che Gianfranco, dopo essere stato al nosocomio di Alzano Lombardo per un altro problema, inizia a mostrare i sintomi di una influenza “alquanto strana, molto diversa dalle solite". È il 24 febbraio. Con lui si ammala anche la moglie, Annamaria. “Lasciava una stanchezza mai provata, febbre e una nausea che dava un cattivo sapore alla bocca”, racconta lei. Nessuno però ci fa caso e Annamaria continua a far visita al padre Antonio, un uomo in salute “non affatto un vecchietto malconcio”. Il 3 marzo però anche Antonio inizia a star male: febbre alta, tosse, spossatezza. “Non era più in grado di camminare”, racconta la figlia. “Ricordo di avere osservato il colorito delle sue orecchie: erano giallastre con venature bluastre”. Il 10 marzo Antonio muore.

Laboratorio di analisi dei tamponi
Laboratorio di analisi dei tamponi

Intanto Gianfranco sta ancora lottando contro il morbo. La moglie, che non ha nemmeno fatto in tempo a piangere il decesso del padre, chiama il 112 ma si sente rispondere respingere. "Non potevano venire poiché stavano ricevendo troppe chiamate e dovevano privilegiare le più urgenti". Sono momenti drammatici, lunghissimi. Quando i due coniugi vanno all’ospedale di Seriate il quadro è angosciante: "Al pronto soccorso è stato come entrare in un girone dell'inferno - racconta Annamaria - Grandi teli erano stesi a far da divisorio con l’esterno ed oltre essi si intravedevano moltissime persone, pazienti". Il marito guarirà, ma “la sua capacità polmonare è ridotta e mal sopporta il minimo sforzo fisico”. Nemmeno Annamaria sarà più la stessa. “È la prima volta che scrivo di quanto successo, e mi accorgo di vivere nell'incubo che qualcosa ritorni e colpisca me o altri membri della mia famiglia. Il giorno 11 marzo la salma di mio padre è stata messa dal servizio di pompe funebri in un sacco nero e portata via. Nessuno è potuto andare a vedere la salma, non sappiamo se sia stato vestito o se gli siano stati messi fiori come avevamo richiesto”.

Il corpo finisce ad Alessandria, cremato. Alla sepoltura metà della famiglia, che abita in un comune diverso, non può partecipare. È la legge. “A tutt'oggi non mi sono ancora resa conto che non ci sia più e non riesco nemmeno a piangerlo”.

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