Cuccia, l’etica keynesiana del banchiere

Nel libro di Giandomenico Piluso i valori e la genesi di Mediobanca

Angelo Allegri

da Milano

Dalla morte di Enrico Cuccia, nel giugno del 2000, sembra cambiato tutto, o quasi. Sono bastati una moneta non più disponibile per periodiche svalutazioni, e una nuova percezione della concorrenza internazionale (cinese prima di tutto), per dare nuove dimensioni al dibattito sul futuro dell’industria italiana e dei suoi protagonisti. Eppure, interpretare la figura del Grande vecchio dell’ex via Filodrammmatici resta fondamentale per ricostruire forze e debolezze del capitalismo della Penisola. Un esercizio intellettuale che vede da tempo due partiti schierati. Secondo i critici Cuccia ha contributo in maniera decisiva a «imbalsamare» l’economia dei «salotti buoni», prolungandone le sopravvivenza, ma anche finendo per essere d’ostacolo alla potenza distruttiva e creatrice del mercato. Secondo gli avvocati difensori è stato invece l’uomo che con più lucidità ha visto i limiti dal capitalismo italiano, scarso di capitali e di competenze tecnico-manageriali, e ha saputo, in qualche modo, forse nell’unico possibile, garantirne il futuro.
Giandomenico Piluso (insegna Storia economica all’università di Siena e alla Bocconi), cerca di sfuggire alle forche caudine di un giudizio troppo netto e semplicistico. L’obiettivo del suo Mediobanca. Tra regole e Mercato (Egea), in questi giorni in libreria, è un altro: non tanto e non solo valutare gli effetti delle scelte di Cuccia sulla competitività delle grandi imprese che a lui si affidavano, quanto spiegare «quale cultura economica e quali fattori regolativi siano all’origine delle strategie dei comportamenti di Mediobanca». La prospettiva consente a Piluso di mettere in luce aspetti talvolta poco citati quando si parla dello storico numero uno di via Filodrammatici. Per esempio l’influenza sui suoi comportamenti del pensiero economico dominante negli anni della formazione (si parla dei due decenni tra prima e seconda guerra mondiale), caratterizzato da una scarsa fiducia nel mercato e dal prevalere delle parole d’ordine keynesiane, spesso con venature da dirigismo tecnocratico. Partendo da queste premesse si dipana, in un testo che è allo stesso tempo agile e fitto di riferimenti, la vicenda di Mediobanca (il cui atto di fondazione è dell’aprile 1946). Dall’avvio come istituto di credito a medio termine, destinato a colmare il vuoto apertosi nel 1936 con la normativa che segnò la fine della banca mista, fino alla prima svolta, degli anni ’50: all’attività di finanziamento si affianca la consulenza. Mediobanca diventa una merchant bank, anzi, la merchant bank dell’industria italiana. Infine la svolta successiva, che inizia alla fine degli anni ’50 per consolidarsi nel decennio successivo: per rafforzare il rapporto con i clienti e talvolta per puntellare compagini azionarie traballanti Mediobanca acquisisce le prime partecipazioni in alcuni grandi gruppi, che talvolta diventeranno poi azionisti dell’istituto. È il reticolo opaco e collusivo che arriverà praticamente intatto fino agli anni ’90 e sul cui ruolo, come detto, il giudizio è ancora aperto.

Più definito è invece il giudizio su Cuccia come interprete di una moralità degli affari che oggi appare démodé: «Meglio diventare verdi di rabbia per non aver fatto un affare - diceva - che diventare rossi di vergogna per averlo fatto».

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