"In cultura tribù che non si parlano"

Andrea Romano nega l'esistenza di un'egemonia della sinistra: "Non so nemmeno cosa voglia dire essere un intellettuale di sinistra". Plaude ai nuovi media: "La commercializzazione non ha coinciso con il declino della nostra cultura"

"In cultura tribù che non si parlano"

Continua il ciclo di interviste de ilGiornale.it per celebrare la fine delle barriere in Occidente a vent'anni dalla caduta del muro di Berlino. Dopo aver intervistato l'assessore milanese alla Cultura, Massimiliano Finazzer Flory, che aveva celebrato l'89 come "la fine delle ideologie del Sessantotto", e Pietrangelo Buttafuoco, che aveva invece accusato il comunismo di sopravvivere nelle coscienze della borghesia italiana, oggi siamo andati a sentire il parere di Andrea Romano, autore del saggio Compagni di scuola

Milano - "Se parliamo di 'cultura' in senso ampio possiamo ben dire che, nel nostro Paese, questa è de-ideologizzata". Andrea Romano, editorialista del Riformista e docente di Storia contemporanea all’Università di Roma Tor Vergata, nega l’esistenza di un’egemonia della sinistra nella produzione culturale italiana. "Almeno dagli anni Novanta del secolo scorso", puntualizza spiegando come, "per un lungo tratto della storia repubblicana, la sinistra non ha avuto accesso alla cosa pubblica". "Questo ha indotto molti intellettuali a dedicarsi alla produzione culturale che, in qualche modo, era staccata dalle responsabilità di governo – continua – diverso è stato per quelli che erano gli intellettuali di area cattolica o democristiana che avevano la possibilità di scegliere se dedicarsi alla produzione culturale o alla responsabilità civile".

Per anni, quindi, una certa egemonia c’è stata?
"Si può dire che quest’esclusione ha reso la sinistra padrona di un campo. Una padronanza che, credo, sia stata ampiamente superata negli ultimi anni. Negli altri Paesi così non è stato. Anzi: spesso si parlava di una destra capace di egemonizzare la produzione culturale."

Eppure, ancora oggi, la destra accusa la sinistra di occupare i vertici della cultura.
"Sono solo consuetudini di cui, ancora oggi, ascoltiamo l’eco. La riprova è data dal fatto che i nomi che si fanno sono sempre datati: protagonisti culturali di una certa età che vedono la propria produzione migliore negli anni Sessanta e Settanta. Anche tra i movimenti più recenti, il fenomeno dei girotondini non può essere considerata un’espressione culturale solida come quella della sinistra italiana di metà Novecento. Quest’ultima aveva, infatti, una struttura di pensiero politico che i girotondini non hanno mai avuto."

Fu, invece, diverso per i socialisti?
"I craxiani capirono questo aspetto elitario della sinistra. Per questo i socialisti furono molto dinamici nella produzione culturale. Ma, anche qui, non lo fecero all’opposizione: come era successo per i democristiani, così fu per i socialisti. Proprio per questo sono fermamente convinto che fra dieci anni non saremo certo qui a parlare dell’egemonia culturale della sinistra. Lo stesso concetto di egemonia è sbagliato in quanto annovera in sé un’accezione dispotica del rapporto. Partendo dal pensiero di Gramsci sono, infatti, convinto che questo processo porti alla produzione delle idee migliori. Non ha in sé un aspetto soverchiante. Estremizzando: mi fa ridere la casella 'intellettuale di sinistra'. Non so cosa voglia dire, non solo oggi."

Dove va oggi la cultura?
"L’Italia è un Paese che ha una produzione culturale molto vivace. Un esempio: il cinema, che negli ultimi anni ha avuto una marcata rinascita. Non ho la spocchia di dire che andare più al cinema (anche a vedere pellicole più commerciali) sia un peccato. Non credo, infatti, che la commercializzazione abbia coinciso con il declino della cultura italiana. E’ il contrario."

E nella letteratura?
"Stesso discorso. A differenza di America e Gran Bretagna, dove il mercato librario è più democratico, in Italia si sono sempre venduti sempre meno tascabili. Questa tendenza, però, sta cambiando negli ultimi anni. Anche questo è un forte segno di vitalità: è come se il nostro Paese stesse diventando più democratico dal punto di vista della fruizione culturale. Questo anche grazie all’apporto della televisione. Non voglio passare per berlusconiano, ma sono convinto che abbia valore positivo anche la diffusione di forme commerciali e popolari di comunicazione, che hanno scoraggiato la diffusione di livelli più alti di comunicazione."

Stesso discorso per quanto riguarda la politica?
"Nel nostro Paese assistiamo a un fenomeno di circolazione di strane tribù: la divisione cultura di sinistra e cultura di destra si traduce in un panorama tribale. E’ così che si forma la tribù dei seguaci di Travaglio o quella dei seguaci di Magdi Allam che erano, poi, gli stessi seguaci della Fallaci. Non voglio racchiuderli in un termine dispregiativo. Sono, piuttosto, elettori che si comprano un certo tipo di libro perché sanno già cosa trovarci. In questa struttura accade purtroppo che le tribù non si parlino fra loro."

Neanche uno scontro di idee?
"Già uno scontro di idee presupporrebbe uno scontro dialettico nella piazza culturale. Queste sono, invece, tribù che non vanno in cerca di altri territori, ma cercano di essere confermati nelle proprie convinzioni. Questo un po’ corrisponde al mercato dei giornali italiani che risultano essere molto politicizzati in un senso o nell’altro: non sono testate solo di orientamento liberale o progressista o conservatore, sono giornali che raramente sorprendono e preferiscono dare soddisfazione a persone di cui ci si immagina già il convincimento."

L’anno scorso con la celebrazione del Sessantotto, quest’anno con la memoria alla caduta del muro di Berlino si dispensa tanta nostalgia. Dicono ancora qualcosa queste date?
"Il Sessantotto non dice più niente, così come non dicono più niente il ’77 o il ’92."

Perché tanto clamore?
"Beh, il Sessantotto è stata una mitologia che, all’epoca, aveva prodotto una tale innovazione culturale disegnare un’intera generazione. Oggi, quella generazione cerca ancora di farsi forte della mitologia sessantottina. Tuttavia, se tutti 'sti libri sugli anni Sessanta non vendono nulla, qualcosa vorrà pur dire."

Qual è, al giorno d’oggi, il rapporto dei giovani con la cultura?
"In questo sono profondamente d’accordo con Baricco. Non credo che i problemi di accesso alla cultura siano dettati dalla mancanza di fondi pubblici. Il mercato culturale è sempre stato rischioso. I soldi sono sempre stati pochi. E’ inevitabile che vi sia una buona dosedi incertezza. Semmai, un limite è dato dal fatto che la cultura non sia a sufficienza 'industrializzata' in modo da assorbire un’adeguata forza lavoro. In America è, ovviamente, diverso. Basti pensare agli scrittori o agli sceneggiatori."

Un tempo c’era l’università, oggi quali sono le più grandi fucine culturali?
"E’ indubbio che oggi l’università stia attraversando un processo di trasformazione piuttosto difficile.

Penso, però, che l’università resista e che se la giochi ad armi pari con i giornali. Il giornalismo, per come è adesso, è diventata un’alternativa all’università stessa: prima ci si arrivava dopo la laurea, oggi le redazioni sono invase da giovanissimi non ancora laureati."

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