Parigi, 24 maggio 1968. Alle ore 20 il generale Charles De Gaulle, presidente della Repubblica francese, parla in televisione alla nazione. La Francia e la sua capitale erano sconvolte dalle manifestazioni studentesche che avrebbero impresso il loro marchio sul Sessantotto in tutto il mondo. Il 22 marzo gli studenti avevano occupato un intero piano della palazzina amministrativa dell’università di Nanterre, cittadina della ‘petite couronne’ parigina. In quel momento la Francia è prospera, in crescita economica, ha praticamente azzerato il debito pubblico nel 1967, il golllismo è saldamente al potere. Eppure un malessere cova sotto l’abitudine al benessere conquistato dai francesi. Infatti il quotidiano “Le Monde” titola il 15 marzo 1968: “Quando la Francia s’annoia…”. Quasi una profezia. L’occasio belli dell’occupazione di Nanterre era l’arresto di alcuni operai durante alcune manifestazioni dei giorni precedenti contro la guerra nel Vietnam. Ma ben presto le rivendicazioni si allargano dalla richiesta di scarcerazione di queste tute blu a una contestazione generale delle strutture dello Stato francese. E diventano protesta permanente contro l’autoritarismo, il consumismo, il militarismo, il bigottismo, l’imperialismo che pervadono la società transalpina. L’incendio si propaga da Nanterre ad altre città francesi, le piazze mettono nel mirino soprattutto Charles De Gaulle, considerato il simbolo di una vecchia Republique da abbattere. Il 3 maggio oltre 400 manifestanti occupano il cortile dell’università Sorbona di Parigi. Subito iniziano violenti scontri con le forze dell’ordine. Tra il 10 e l’11 maggio centinaia di studenti issano barricate per le strade del Quartiere latino di Parigi.
La polizia assalta questi sbarramenti con ondate ripetute: oltre 100 feriti. La repressione delle forze dell’ordine appare eccessiva, probabilmente anche figlia di un’impreparazione a una situazione simile di ordine pubblico. Questo è l’elemento che porta molti parigini a solidarizzare con i manifestanti. Infatti il 13 maggio circa un milione di persone sfila per le strade del centro della Ville Lumiere. Questa manifestazione segna l’inizio dello sciopero. Il 14 maggio il generale De Gaulle parte per una visita di Stato in Romania. Il 19, al rientro in patria, il presidente definisce “chienlit” (“La réforme, oui. La chienlit, non”) i manifestanti parlando con la stampa. Spregiativamente ‘un casino’ o comunque ‘un carnevale’. Poco dopo Parigi viene inondata di manifesti e volantini che raffigurano una caricatura di De Gaulle con la scritta ‘La chienlit c’est lui!’. Tra il 13 e il 22 maggio la Francia è paralizzata: università occupate, fabbriche occupate, uffici deserti, trasporti pubblici bloccati, niente benzina presso i distributori, telecomunicazioni sospese. Almeno 10 milioni di lavoratori, più della metà della forza lavoro nazionale, non si recano al lavoro perché in sciopero o fermati dallo sciopero.
Assemblee spontanee di cittadini si riuniscono permanentemente per discutere di tutto: filosofia, società, consumi, cultura, istruzione, salari. Tra i luoghi simbolo di questo clima il teatro Odeon di Parigi, luogo d’incontri tra comuni cittadini, politici, filosofi, militanti di sinistra, studenti universitari, operai, turisti. Il 24 maggio gli studenti vanno all’assalto della riva destra della Senna: incendiano la Borsa di Parigi e si avvicinano minacciosamente al Palazzo dell’Eliseo, residenza ufficiale del Presidente della Repubblica francese. Il primo ministro George Pompidou cerca una trattativa ufficiosa con i sindacati tramite un giovane sottosegretario al lavoro, Jacques Chirac. Ma gli scontri sono violenti, da un lato i sindacati e i partiti di sinistra hanno perso ogni presa sulla piazza, dall’altro la polizia non si sente tutelata a sufficienza dal governo e quindi pone in atto una forte repressione militare. In quello stesso 24 maggio il presidente de Gaulle appare in tv e parla alla nazione francese: appare stanco, il mezzo di comunicazione che gli è più congeniale è la radio, anche l’ultimatum lanciato agli studenti e ai lavoratori in sciopero appare un po’ “scarico” rispetto alla drammaticità del momento. Infatti i disordini continuano. E in questo caos con la nave in piena tempesta dov’è il comandante, cioè de Gaulle? È sparito, gettando nello sconcerto anche diversi esponenti del governo. Il generale in gran segreto il 29 maggio si reca in elicottero a Baden Baden, confine sudoccidentale tra Germania e Francia. Lì c’è una caserma dell’esercito francese. Le truppe della Republique in territorio tedesco sono comandate da Jacques Massu, il generale che si è messo in luce durante la battaglia d’Algeri del 1957 al comando della decima divisione paracadutisti, con il contestatissimo utilizzo di torture e sparizioni contro i militanti del Fronte di Liberazione Nazionale algerino e dei loro fiancheggiatori. Massu è un fedelissimo di de Gaulle, unico politico da lui stimato.
De Gaulle ha quasi 78 anni, è stanco e demoralizzato, forse paventa persino una presa violenta del potere da parte dei comunisti che sconvolgerebbe gli equilibri dell’Europa divisa nei due blocchi. È stato l’indiscusso protagonista della guerra di liberazione francese dai nazisti, poi il protagonista della vita politica stabilmente dal 1958. Pare che Massu gli dica queste parole: “Generale, non può permettere che dieci giorni distruggano dieci anni di lavoro”. Il 30 maggio de Gaulle rientra a Parigi, salutato da una manifestazione di sostegno che raduna oltre un milione di persone sugli Champs-Élysées. Il presidente scioglie l’Assemblea Nazionale e indice le elezioni politiche per il 23 e il 30 giugno successivi. È un trionfo gollista: l’Unione per la Difesa della Repubblica supera di gran lunga le sinistre sia in voti che in seggi. Il Sessantotto si chiude così, con il movimento studentesco rimasto spiazzato dall’improvviso ritorno sulla scena del vecchio generale. Che nel 1969 abbandona la politica e si ritira a vita privata. Una specie di “notte dell’Innominato” di manzoniana memoria quella di de Gaulle nei giorni tra il 24 e il 29 maggio 1968. Ma in questo caso non c’è stato un pentimento bensì la presa di coscienza dell’uomo solo al potere. Un uomo certo logorato da diverse stagioni di governo, che vedeva la grandeur francese dissolversi nelle automobili date alle fiamme, nei sanpietrini divelti dalle strade, nell’assemblearismo permanente, in cittadini che sembravano rassegnati a uno strapotere delle sinistre. Non si seppe mai cosa si dissero de Gaulle e Massu in quel colloqui privato di un’ora circa a Baden Baden (forse il presidente si era garantito l’appoggio delle forze armate).
È certo però, come rilevò anche Indro Montanelli, che la Francia trovò nel generale un argine al dilagare degli effetti più mefitici del movimento sessantottino. Cosa che, continuava il suo ragionamento il fondatore del Giornale, non era purtroppo avvenuta in Italia. Dove questi effetti si sarebbero manifestati ben oltre il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro (16 marzo-9 maggio 1978) e avrebbero ipotecato buona parte dei circuiti culturali, editoriali e politici del Paese. Facendo danni anche all’economia. E portando alla formazione di un reducismo che di fatto ha bloccato non solo un sano ricambio, ma anche alla radice la formazione di una nuova classe dirigente. All’Italia mancò un “padre della Patria” capace di porsi come un faro per l’opinione pubblica e per una maggioranza che non fosse solo silenziosa ma animata da sinceri sentimenti democratici.
All’Italia, secondo alcuni osservatori, mancò un de Gaulle. Certamente una figura di un altro mondo; oggi i politici non guidano nessuna piazza, né reale né virtuale. Al massimo vi si accodano prontamente per qualche decimo di percentuale in più nei prossimi sondaggi.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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