Boncompagni, la mamma della radio che fece impazzire anche Al Capone

É stata la prima anchor woman del mondo, la voce della radio appena nata, la donna che aprì le porte a un mondo nuovo. Annunciò la fine della guerra, conquistò Guglielo Marconi e Tazio Nuvolari. E una volta con Benito Mussolini....

Maria Luisa Boncompagni, la prima anchor woman
Maria Luisa Boncompagni, la prima anchor woman

Non aveva resistito. Quella voce che arrivava dall’Italia nella notte di Chicago, attraverso le onde misteriose della radio, flebile, disturbata, ma bellissima, gli aveva fatto perdere la testa e non solo perché quella voce parlava la lingua di mamma Teresa, almeno quando mamma Teresa non parlava il salernitano stretto. Si decise così a spedire un appassionato bigliettino a quella voce senza volto, «dolce, viva, piena di sfumature e di calore». Scrive sulla busta nome e indirizzo «Misteriosa annunziatrice, Uffici della Radio, Roma» e si firma per esteso: Alfonso Capone. Detto «Al».Quando la legge Maria Luisa non fa una piega. La rimette dentro la busta e la consegna alla cassettiera insieme a quelle di tutti gli altri. Quella di Tazio Nuvolari, il mantovano volante che faceva correre le Bugatti e girare la testa alle signorine, quella di Pietro Mascagni, che la faceva sempre un po’ sorridere perché quando aveva presentato il suo primo concerto si era emozionata e invece di dire «ed ecco a voi Le maschere di Mascagni aveva detto ed ecco a voi Le Mascagne di Mascheri ». E poi quella di Guglielmo Marconi, il genio che aveva inventato la radio di cui lei era la primadonna: era quella a cui teneva di più perché accompagnata dalla foto. «La vostra parola cade sopra il mio udito come rugiada fresca sopra un giardino assetato in mezzo dell’estate» è la dichiarazione di un ammiratore poeta, «Se tu non mariata con nessuno, allora maritare con me» quella più terra terra di un gangster marsigliese. Ne riceve a migliaia così. Maria Luisa Boncompagni era la prima in tutto. La prima annunciatrice della radio, la prima voce che sbuca dal buio dell’etere in una sera di inizio ottobre di quasi cento anni fa. Dice: «Uri, Unione Radiofonica Italiana), 1-Ro stazione di Roma. Lunghezza d'onda metri 425. A tutti coloro che sono in ascolto il nostro saluto e il nostro buonasera. Sono le ore 21 del 6 ottobre 1924. Trasmettiamo il concerto di inaugurazione della prima stazione radiofonica italiana, per il servizio delle radio audizioni circolari: il quartetto composto da Ines Viviani Donarelli, Alberto Magalotti, Amedeo Fortunati e Alessandro Cicognani, eseguirà Haydn dal quartetto Opera 7, I e II tempo». Anche se un contenzioso storico attribuisce invece alla Donarelli stessa queste prime parole. É la prima anchor woman del mondo, la prima testimonial pubblicitaria, per l’azienda che a quei tempi fornisce gli apparecchi per le previsioni del tempo, persino la prima radiocronista: «Conducevo un programma per i bambini, mi facevo chiamare Zia Radio, e sotto gli studi di via Maria Cristina stava passando la Reale con la banda in testa, per il cambio della guardia al Quirinale. Il nostro non era un vero studio e dalle finestre arrivava il rumore della strada. Figuratevi un po’ la banda… Così portai davanti alla finestra il cavalletto che sorreggeva il microfono e dissi: volete sentire di che cosa è capace la radio? Spalancai le finestre e raccontai quella sfilata di soldati e musicisti che passava sotto di noi». Pensare che la radio all’inizio la snobbano in tanti. È costosa, faticosa, ingombrante. L’apparecchio a galena, dove per trovare la stazione ci vuole la tenacia di un ricercatore, è inguardabile in salotto. Meglio la quattro valvole che costa quattromila lire, quando il reddito medio in Italia è sulle tremila lire all’anno. Poi funzionano a singhiozzo, si spengono per un niente, intercettano le scariche del temporale e il brusio degli ascensori e le prime trasmissioni durano solo un’ora e mezzo, dalle 21 alle 22.30, perchè bisogna far riposare «le esauste valvole». Piano piano però cambia tutto. Decolla grazie a due giganti, Nicolò Carosio e Nunzio Filogamo, a un concerto, quello della «Martini e Rossi» che va in onda tutti i lunedì sera e alla guerra d’Abissinia. Ma Maria Luisa era speaker prima ancora che nascesse la radio. Un giorno, è il 1914, legge un annuncio pubblicato su Il Messaggero, cercano una «signorina buona dicitrice» per l’Araldo telefonico, una specie di giornale radio che attraverso il telefono intrattiene gli abbonati con notizie lette dai giornali e brani musicali, praticamente il padre della radio e il nonno dello smartphone. Si gira la manovella e nelle case degli abbonati suona il cicalino. Costa cinque lire al trimestre e non è raro che a riscuotere il dovuto ti capiti a casa proprio lei, la Boncompagni in persona. Assunta per 80 lire al mese. Una volta però la prendono a male parole. Capita quando legge in diretta il fogliettino che le porta il più sbrigativo dei giornalisti che collaborano con l’Araldo, da leggere subito. C’è scritto: «In questo momento le sante fucilate risuonano sulle balze del Trentino…». È l’annuncio dell’entrata in guerra dell’Italia. Quel «sante fucilate» manda in bestia i pacifisti. Centinaia di telefonate di insulti: «Ma cosa c’entravo io? Avevo 22 anni, ero stata appena assunta, quello che mi dicevano di leggere, leggevo». Lo sbrigativo giornalista che gli mette in mano quel foglietto si chiama Benito Mussolini. Non sopportava invece di essere chiamata «annunciatrice ». «Sono segretaria, giornalista, conduttrice. E qualche volta donna delle pulizie del mio studio…». Per più di quarant’anni è la voce della radio, la mamma delle signorine Buonasera, la nonna delle dj, dall’Italia fascista a quella del dopoguerra, dalla Dolce vita al Sessantotto. È lei a leggere il bollettino della vittoria della Prima guerra mondiale firmato Diaz, è lei a lanciare l'appello ai superstiti del dirigibile Italia subito dopo la tragedia al Polo Nord. La chiamano «l’Usignolo della radio» e «la mitragliatrice delle parole» «era così popolare - raccontava Nunzio Filogamo suo compagno di lavoro a Sorella radio e di villeggiatura a Celle Ligure - che i malati applaudivano solo a sentirne la voce: le volevano bene senza averla mai vista in faccia». All’inizio il suo lavoro ha le frenesie delle comiche di una volta. Comincia il programma suonando all’armonium un accordo in fa maggiore: non conosce le note ma i tasti hanno i numeri. Mette quindi il primo disco sul piatto del grammofono, corre al microfono per annunciare la canzone, torna al grammofono per far partire il disco, prepara quello successivo e ricomincia. Alzandosi e sedendosi decine di volte. In chiusura fa il conto alla rovescia e, deng!, batte un martello contro una campana. Per dare il segnale orario invece aspetta il colpo di cannone del Gianicolo. Le capita qualche gaffe quando legge i risultato sportivi: «Milano b puntato Bologna uno a zero, Torino b puntato Roma due a uno». Le spiegano, ma dopo, che quella «b puntato» vuol dire «batte»: Milano batte Bologna, Torino batte Juventus. Una faticaccia che non paga. Solo un vitalizio della Rai unito alla pensione di ottantamila lire le permettono di vivere decentemente. Fino a quel momento per campare dà lezioni private di dizione a casa sua. Ma altre, diceva, erano le sue soddisfazioni. Come quando, è l’aprile del 1943, nello scompartimento del treno dove viaggia un timido ufficiale di fanteria le domanda: «Mi scusi signora, ma lei è Zia Radio?, «Lo ero ma tanti anni fa» «La sua voce, sapesse da quanto tempo me la porto nel cuore. Ero uno dei suoi nipotini radiofonici: un giorno le scrissi una cartolina chiedendole di fare il mio nome per radio. Non solo lei disse: “Luigino, sei in ascolto?”, ma mi mandò anche un bacio. Sapesse il bene che mi ha fatto. A dieci anni non avevo più la mamma e sentirmi chiamare con quell’affetto mi riempì il cuore. E adesso che parto per la guerra incontro lei, la mia Zia Radio…» Ricordava: «L’avevo davanti agli occhi, alto e ben piantato.

Ricacciai in gola le lacrime e, con il mio sorriso più bello, lo abbracciai e gli dissi: allora, Luigino, quel bacio che ti mandai per radio ora te lo do di persona. Di lui non seppi più nulla». Era un’onda, ma di amore.

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