«Che pacchia la vita da autista-tuttofare del maestro Kubrick»

«Prendi la penna». «No, scrivi tu. Io traduco in inglese e basta, ché magari stravolgo il senso...». A parlare sono Stanley Kubrick, il regista di Rapina a mano armata, Il dottor Stranamore, 2001: Odissea nello spazio, Arancia meccanica, e Emilio D'Alessandro, il suo autista tuttofare. Il terzo interlocutore, quello bisognoso di un interprete, è Federico Fellini. «Trent'anni accanto a Kubrick» era il titolo dell'appuntamento mantovano in cui ieri veniva presentato Stanley Kubrick e me (di D'Alessandro, con Filippo Ulivieri, Il Saggiatore, pagg. 360, euro 17). I trent'anni accanto a Kubrick vanno dal '70 al '99.
Ma come si diventa autisti di Kubrick?
«Per me è stato un caso. Non sapevo chi fosse, è stata una conoscenza inaspettata. Ho iniziato a fare dei lavori per lui e avevo chiara solo una cosa: ogni fine settimana mi pagava. Un giorno la segretaria mi chiese: “Tu sai per chi lavori?” Risposi di no e lo scoprii».
Come andò quella chiacchierata con Fellini?
«Iniziai dopo poco a fare altro, oltre all'autista. Quel giorno mi chiese di fare da interprete, si trattava di roba cinematografica. Cose di cui non capivo nulla».
Chi era Kubrick?
«Un uomo responsabile, attento al prossimo e soprattutto alla famiglia. Hanno raccontato molte zozzerie, lo hanno dipinto come qualcuno che io non ho mai visto. Come quella volta con Nino Rota. Era impaurito. Cercai di calmarlo, gli dissi: “Nino, non ti preoccupare, ti lascio un'ora e mezza con lui e vedrai che ti troverai bene”. Quando uscii dalla stanza il suo sguardo era terrorizzato. Quando tornai non volevano più lasciarsi».
Le disse niente Rota, dopo l'incontro col regista?
«Persona amabile».
Lei era presente anche all'appuntamento con Ennio Morricone.
«Anche lui spaventato. Si chiedeva che persona fosse, non sapeva cosa aspettarsi. Kubrick chiese a mia moglie di preparargli un pranzetto, per mangiare con lui. Morricone se ne andò sollevato».
Cosa voleva dire stargli accanto?
«Non aver tempo per riposare. Cinque ore di sosta, di pausa, erano già molte».
Come lo racconterebbe?
«Era una persona premurosa. Si preoccupava. Non amava uscire, frequentare i luoghi pubblici. Non si fidava, fondamentalmente. Né delle persone che non conosceva né della stampa. Temeva quello che potevano scrivere».
L'aspetto più piacevole dell'essere l'uomo di fiducia di un maestro del grande schermo?
«Ogni giorno era come andare all'università, toccavo con mano qualcosa di inaspettato, di lontano da me. E poi le persone, le celebrità che ho incrociato. Guardare da vicino gli attori, giocare a verificarne l'altezza, la bellezza. Mi ricordo la prima volta che vidi Ryan O'Neal, che di lì a poco girò Love Story, o quando fu il turno di Marisa Berenson, la Lady Lyndon in Barry Lyndon».


Trent'anni con Kubrick e tredici senza di lui. Cosa le manca di più?
«Mi manca lui. Cerco di non pensarci, di confinare il ricordo, ma non mi riesce. Lo sogno almeno tre volte a settimana. Ho nostalgia dell'avere la giornata piena, di posti e di gente».

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