A oltre cento anni d'età, li aveva compiuti a marzo, se n'è andato un grande vecchio del comunismo italiano, Pietro Ingrao. La politica italiana lo ha visto per decenni alla ribalta, mai protagonista e spesso antagonista. Voleva la luna - ha dato questo titolo a una sua autobiografia pubblicata da Einaudi nel 2006 - e invece ha accumulato sconfitte e frustrazioni. Nonostante questo potè scrivere in un altro suo libro Mi sono molto divertito . Infatti per quasi un secolo ha assistito alla recita dell'Italia e del mondo. C'era di che spassarsela.
Appartenne alla Nomenklatura d'un partito, il Pci, che aveva regole e gerarchie ferree: ma quando occorreva si rifugiò nella sua nicchia di poeta, fin dall'adolescenza attratto da slanci culturali: grazie ai quali potè primeggiare nei littoriali fascisti che del resto riunirono alcuni successivi Maestri della sinistra. Elogiò, poeticamente, la bonifica pontina e la costruzione di Littoria.
Ciociaro di nascita, Ingrao era stato liceale a Formia. Durante la guerra s'avvicinò alla fronda comunista, e poi partecipò alla Resistenza. Conobbe in quegli anni Laura Lombardo Radice, figlia d'un famoso pedagogista siciliano, che era «bella, vivace, intelligente», che divenne sua moglie e che fu, insieme a lui, una fervida credente nelle magnifiche sorti del comunismo. Da Laura, che si è spenta nel 2003, ha avuto cinque figli.
La coppia entrò nell'empireo del partito togliattiano. Pietro alternava pulsioni visionarie alla quotidianità di un apparatchik , Laura dava prova d'una fede cieca e assoluta quando nel 1946 scriveva a una ragazza sovietica: «Tu non sai la fatica di una pace senza pace, la bocca amara dell'occupazione alleata... Tu non conosci Consulte e Parlamenti e vecchie facce di politici rugosi come tartarughe. Tu non conosci la “civiltà occidentale” e ti è molto difficile immaginarla». Che noia la democrazia, felice la compagna che poteva godersi il regime staliniano.
Mentre Laura indottrinava la corrispondente lontana, Pietro progrediva nel cursus honorum del Partito comunista. Togliatti si fidava di lui tanto che nel 1948 lo insediò alla direzione dell' Unità : dove rimase per un decennio. Il «compagno disarmato» e mite, quale l'ha descritto chi gli ha dedicato un saggio, si adeguò disciplinatamente agli ordini del partito. Fu staliniano finché Stalin visse, dovette avallare le menzogne d'una propaganda secondo la quale l'Italia soffriva sotto il tallone capitalista e in Unione Sovietica il popolo assaporava i benefici d'una splendida società nuova.
La destalinizzazione krusceviana lo turbò, ma non gli impedì dì elogiare i carri armati dell'Urss che avevano schiacciato la rivolta di Budapest nel 1956.
Ebbe poi nel 1976, per una tacita convenzione lottizzatrice tra democristiani e comunisti, la terza carica dello Stato, la presidenza della Camera. Tale era la sua convinzione d'essere dalla parte del giusto che anche dopo l'assassinio di Aldo Moro insistette nel lasciare intendere che le Brigate Rosse fossero sedicente sinistra. Toccò quella volta a Laura di richiamarlo alla realtà. «Ti devi convincere che quei ragazzi sono nostri figli». Aveva impulsi ribelli ma votò con la direzione del partito per l'espulsione dei dissidenti del Manifesto .
La crisi e la fine del partito comunista fu anche la crisi di un uomo che si accorse d'essere superato dagli eventi. Ebbe ammissioni amare. «Non ho saputo rompere in tempo e ora l'età mi restituisce il peso del più grave errore della mia vita». Riconosceva di non aver capito, di non avere previsto. Ma sosteneva d'avere ancora fiducia in un comunismo rigenerato. Predicava il «pacifismo assoluto», di tipo gandhiano, ma nella sua lunga esistenza aveva avuto parole elogiative per despoti come Stalin, come Mao, come Ho Chi Min, come Pol Pot, una platea di tiranni associata allo spontaneismo del Che Guevara per alleggerire un po' la scena.
Non rinunciò al miraggio della palingenesi rivoluzionaria. Si era opposto alla svolta della Bolognina di Achille Occhetto, e alla rinuncia al nome storico di Partito comunista italiano, poi aveva aderito al Pds staccandosene tuttavia definitivamente nel 1993. La moglie s'era rifiutata di seguirlo nella decisione: «Dovevamo arrivare a questa età per diventare dei senza partito?». Da quel momento le sue simpatie erano andate agli estremismi di Rifondazione comunista o ai gruppuscoli utopici. Quando lo si intervistava era lucido, cortese e irriducibile nei suoi sogni. Era un galantuomo. Sì, ha voluto la luna e forse adesso c'è arrivato.
È morto ieri a Roma all'età di 100 anni lo storico leader del Pci Pietro Ingrao.
Nato a Lenola il 30 marzo 1915, è stato direttore de l'Unità dal 1947 al '57 e parlamentare alla Camera dei deputati tra il 1950 e il '92, di cui divenne anche presidente dal '76 al '79. La camera ardente sarà ospitata a Montecitorio- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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