A questo punto non si sa neppure se sia mai esistito, come una leggenda, una sorta di Atlantide che la storia ha finito per sommergere, o un'astrazione, che ha perso peso e dimensione, dilatando così tanto i suoi confini da perdersi, da non riconoscersi, per l'ambizione o l'ingordigia di voler rappresentare tutto, troppo. Allora, come accade per l'amore, viene da chiedersi di cosa parliamo quando parliamo di Occidente? Ti dicono di questi tempi che è quasi una parolaccia, che puzza di razzismo, dell'unica identità che non è opportuno citare, perché non ha ancora scontato le sue malefatte, il suo egocentrismo, l'arroganza di credersi padrona delle civiltà. La realtà è che gli umani sono quello che sono e non è che, se lo cancelli, la storia si depura di lacrime e sangue. E poi vai a capire dove sta e arriva l'Occidente.
Forse da qualche parte nell'Atlantico, lungo una scia che segna il tragitto tra l'Europa e l'America, ma questo significa dimenticare il Mediterraneo o far finta che il Giappone, lontano Oriente, non sia ormai disegnato con la stessa stoffa o abbandonare Israele alla sua anomalia. È che l'Occidente ha confini indefiniti e non è neppure un'identità. Non è un'espressione geografica o, perlomeno, non lo è più. L'Occidente è un principio e un punto di approdo. È un'idea, magari una speranza, che si delinea intorno a certe parole, che dovrebbero incarnare valori, con un loro percorso piuttosto accidentato, fatto di ingiustizie, di guerre, di rivoluzioni, di piccoli passi avanti e cadute nelle notti più buie, sempre con una sensazione di fragilità, come qualcosa sul punto di rompersi. Quelle parole, quei valori, sono libertà, democrazia, fraternità, uguaglianza, con l'eterno dibattito su cosa tutto questo voglia dire, e come pavimento un termine sentito come più sporco degli altri, ma fondamentale: mercato. Sì, perché la storia dell'Occidente non puoi scriverla se non fai i conti con le origini del capitalismo. È lì che il percorso si snoda e prende una piega particolare, una frattura che genera di volta in volta un braccio di ferro tra tradizione e modernità. Fino a confrontarsi con il sacro, con la religione, con il lungo processo di secolarizzazione, lo smarrimento che ti porta a ballare tra ragione e nichilismo, cercando disperatamente un senso al vuoto lasciato dalla morte di Dio. L'Occidente per secoli ha fatto i conti con tutto questo. È da qui che però prendono vita quei valori, quelle parole. La libertà e le altre compagne non sono «naturali». Ci devi arrivare. Quei diritti fondamentali e inalienabili sono in realtà il frutto di uno sforzo sovrumano. È stata questa la scommessa dell'Occidente e ogni volta che hai paura te la ritrovi davanti.
Questo sentimento occidentale deve venire comunque da molto lontano. Devono averlo provato i greci, così diversi e così divisi, per fermare i persiani. Qualcosa devono aver intuito i romani quando temevano che il fascino di Cleopatra avesse sedotto Cesare al punto da farlo diventare un satrapo. Come può un uomo, per quanto eccezionale, immaginarsi Dio? Quel sentimento si respirava probabilmente sulle navi a Lepanto. È scritto, con lucidità filosofica, nelle pagine de La società asiatica di Marx, quando il padre del comunismo traccia una linea tra l'assolutismo e le libertà individuali. La storia, paradossalmente, gli avrebbe dato ragione, battezzando quell'antico modello asiatico con il suo nome.
Questo sentimento da qualche parte c'è ancora, solo che in tanti sembrano vergognarsene. È un ripudio. È da qui che parte Renato Cristin per tracciare le linee del suo Quadrante occidentale (Rubbettino). È una crisi di legittimità. È idiofobia. «Il disprezzo verso ciò che è proprio, verso se stessi, è il più grande non detto della cultura occidentale moderna. L'idiofobia continua a essere inoculata con azione sistematica nella psiche occidentale, ormai devastata dalla retorica dell'alterità». Non è certo un fenomeno di questi anni. È una costante. È il destino di quell'avventura umana che Popper indicò come «società aperta». I suoi nemici più irriducibili sono proprio al suo interno. È la debolezza e la forza di una civiltà che non ha paura di chi la contesta. È la sua diversità e ha come caposaldo sacro la libertà di pensiero e espressione. Non è da qui che arriva quindi l'insidia. La minaccia è per certi versi sorprendente. La «società aperta» è minacciata non solo dai suoi nemici, ma da quelli che si dichiarano amici. Cosa accade se i liberali mettono sotto chiave la libertà offrendo come merce di scambio una sicurezza che non sono neppure in grado di garantire? Cosa succede se i democratici non si fidano più delle scelte di chi vota? Cosa capita se il «sogno americano» svanisce, perché diventa impossibile l'impresa di partire dal basso per puntare in alto? Che società aperta è quella dove il demone più diffuso è la paura? Che avviene se gli ateniesi tifano per Sparta? La democrazia occidentale non piace agli uomini di affari, ai maghi della finanza, ai padroni della rete, ai maestri del pensiero, ai qualunquisti e ai puritani, indispettisce filosofi e scienziati e magari sta sul cavolo perfino al popolo. Ti chiedi quanti siano in fondo davvero innamorati di questa benedetta liberal democrazia e se c'è ancora qualcuno in giro disposto a non barattare un grammo di sicurezza per un chilo di libertà. Tutto questo avviene mentre il capitalismo vive una metamorfosi che rischia di frantumare i suoi principi vitali. È come se il capitalismo finanziario e globale avesse spostato il proprio asse culturale. Non ci sono più i diritti individuali al centro. È una frattura profonda tra il modello di produzione e la sua civiltà.
È come se la globalizzazione del capitalismo avesse deviato il suo corso verso Oriente, rinnegando i suoi principi. I liberali sono rimasti orfani del capitalismo e, come sostiene proprio Cristin, per ritrovarli devono tornare a casa.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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