Franzen, il grande talento che non sa più osare

Delude lo scrittore Usa: accecato dai dettagli, perde di vista la storia

Se Jonathan Franzen non avesse scritto, circa quindici anni fa, un capolavoro intitolato Le correzioni e se questo romanzo non ci avesse insegnato da capo cosa significa narrare (ogni grande romanzo è infatti anche una lezione inattesa sul mistero della Narrazione) ebbene, se Franzen non avesse commesso il peccato imperdonabile di avere scritto quel libro, e solo quello, io credo che nessuno si sarebbe mai sognato di dare una qualsiasi rilevanza ai successivi fallimenti dello scrittore americano.
Il recente romanzo, Libertà (Einaudi) tradiva fin dal titolo la disperazione di un compito impossibile a qualsiasi scrittore: quello di stare, per così dire, all'altezza del proprio capolavoro. Ma se Libertà conserva almeno nella forma esteriore la parvenza di una perlomeno tentata nobiltà, le difficoltà emergono in quest'ultima raccolta di scritti franzeniani, Più lontano ancora (Einaudi, pagg. 300, euro 19,50). Fin dalle note di copertina e dalle citazioni dell'immancabile stampa anglosassone si capisce che il primo problema è quello di tutelare un bene culturale vittima del degrado. Nessuno scrittore dovrebbe sopportare di essere trattato non come scrittore ma come uomo - quasi che ciò che chiamiamo «uomo» fosse tutto ciò che sta fuori dal suo essere scrittore.
Qui della letteratura manca tutto, a cominciare dalla sua straziata attitudine a un abbraccio così ampio dell'uomo e della storia da essere quasi obbligato a descrivere l'uomo come migliore di quel che è, e non soltanto nelle vicende gradevoli o neutre. Perfino Hitler o Stalin non possono non accedere, in letteratura, a una qualche forma di grandezza. Per fare questo è però necessaria quella serenità un po' spensierata (non per davvero, ma perché il pensiero è tutto affidato al movimento del racconto) che consente all'istinto dello scrittore di anticipare il calcolo razionale, valutando con sicurezza ciò che è importante e ciò che non lo è. È, viceversa, proprio di chi patisce un disturbo in tal senso l'essere incapaci di distinguere l'essenziale dal particolare. Più lontano ancora è la festa del particolare che non trova la via verso un significato. Leggiamo per esempio la cronaca del viaggio dell'autore in un'isola lontana per disperdere parte delle ceneri dell'amico David Foster Wallace, uno scrittore la cui grandezza sta tutta nella domanda che rivolge al suo lettore, nella fatica (talvolta enorme) che chiede al lettore di fare insieme con lui. E non è un caso che in tanti si siano innamorati dell'opera spesso illeggibile di Wallace. Ora, l'amico fraterno Jonathan Franzen, encomiabile sacerdote del rito, non rinuncia a raccontarci l'uomo Wallace, sottolineando tutte le pecche di uno scrittore che qualcuno volle, post mortem, trasformare in un santo. Come se a qualcuno potessero importare gli altarini nascosti. Il ritratto dell'amico risulta non tanto ingeneroso quanto concepito fuori dalla letteratura, fatto cioè di quello spezzettamento contro il quale è nata la letteratura, ossia il sogno di rendere conto (racconto) dell'intero di una storia, affinché possa essere giudicata. In un altro racconto Franzen parla delle sue avventure di bird-watcher sull'isola di Cipro, lanciandosi verso la fine in una profezia lugubre sul destino dell'Europa (su questo concordo in parte) causa la mancata protezione di diverse specie animali. È chiude dichiarando San Francesco superiore a Gesù Cristo avendo il primo esteso la predicazione del secondo non solo agli uomini ma anche agli animali. In primis le allodole. Anche gli scritti sulla letteratura tradiscono la stessa mancanza di slancio, a partire dal primo testo, Il dolore non vi ucciderà, una conferenza dove lo scrittore non riesce né a descrivere l'esperienza del dolore né a spiegare in modo persuasivo a un uditorio di giovani preoccupati per il proprio futuro perché mai il dolore non vincerà.


Il guaio è che non si può affrontare un proprio (grosso) problema né rendere gli altri partecipi della propria difficoltà se si continua a stare sulle difensive, come fa Franzen. Ci vuole povertà, umiltà, occorre sentirsi perduti come chi non ha davvero più nulla da perdere, ivi incluso il proprio stramaledetto binocolo.

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