A dispetto dell'emergenza sanitaria che per mesi ha colpito con ripetute chiusure i musei del nostro Paese, le ultime settimane sono state particolarmente frenetiche per Sergio Risaliti, direttore del Museo Novecento di Firenze. Dapprima - il 14 gennaio - con "MORE MUSEUM", convegno online organizzato dal suo museo in collaborazione con Muse e con l’assessorato alla cultura del Comune di Firenze e incentrato sulla necessità di fare il punto sulla situazione di grave sofferenza dei musei italiani e avviare una riflessione sullo stato delle cose e su come ripartire nel futuro prossimo; poi, il 18 gennaio, con l'apertura - la prima del 2021 tra le grandi città d'arte - della importante doppia mostra su Henry Moore.
A distanza di quasi un mese, abbiamo chiesto a Risaliti di fare il punto della situazione, per cercare di capire quali possano essere le prospettive del sistema museale italiano in questa primissima fase di post lockdown.
Com'è andata con “More Museum”?
Il convegno è stato davvero molto interessante; non solo per la qualità degli interventi, ma proprio per essere riusciti a mettere insieme un numero cosi ampio di presidenti di fondazioni e direttori di musei di arte moderna, contemporanea e antica, direttori di parchi archeologici. Una cosa epocale perché coincideva con i giorni della riapertura, con il passaggio dell’annuncio del Ministro del reopening dei musei in zona gialla.
Ecco, a proposito... risale ormai a qualche mese fa il suo appello al Ministro Franceschini, in cui gli chiede di non considerare le esposizioni e i musei come puro e semplice business nel quale occorre far quadrare i conti, ma come necessità primaria per la comunità. Ora siete stati i primi ad aprire, in zona gialla, con la doppia grande mostra su Henry Moore. Qual è il bilancio, dopo quasi un mese?
Non è stata una presa di posizione ufficiale quella che ha definito i musei come luoghi di intrattenimento e di profitto, ma più una considerazione fatta in base alle decisioni prese in fase emergenziale che hanno messo ai margini la funzione primaria dei musei, che è quella di essere in primis luoghi di educazione e sensibilizzazione dei cittadini. Infatti quando sono venuti a mancare i grandi introiti dati dal turismo di massa – che poi come diciamo da anni è quello che penalizza le città d’arte per tante altre ragioni, come la messa in crisi del tessuto sociale, delle tradizioni, dei luoghi dell’artigianato – sembrava davvero ci fosse una sorta di decisione non dichiarata a monte, o per meglio dire una “filosofia” che continua a vedere il museo in relazione agli incassi realizzati. Che continua a considerare ingiustificate e ingiustificabili le spese in mancanza di introiti massicci come quelli garantiti dal turismo di massa. Punto essenziale della mia critica, espressa con quell’appello firmato da piu di 2000 professionisti, era proprio quello della funzione del museo in rapporto ai cittadini. I musei sono pubblici: quindi sono istituzioni che per costituzione devono prima di tutto tener conto dell’educazione pubblica e della crescita della cultura generale e specifica. Anche perché a ben vedere i proprietari dei musei e delle opere lì conservate sono i cittadini stessi: si tratta di un patrimonio italiano e noi del settore siamo servitori in funzione dei proprietari che sono i cittadini. Questa filosofia, quindi, è emersa in modo particolare nel momento in cui in zona gialla si continuava a tenere chiusi i musei mentre si riaprivano durante la settimana tante attività di “consumo”, come i centri commerciali. Il motivo della sicurezza sanitaria non aveva ragione d’essere per la chiusura dei musei che sono luoghi presidiati, sicuri, dove già da sempre si devono rispettare le regole del contingentamento anche per garantire la qualità della conservazione delle opere. Quindi non se ne capivano i motivi, se non con la spiegazione che fossero meramente di tipo finanziario ed economico. Poi è arrivata la recente apertura in zona gialla, che però sembra ancora punitiva soprattutto nei confronti dei cittadini: perché tenere chiusi i musei di sabato e domenica vuol dire penalizzare chi lavora durante la settimana, le famiglie che possono magari uscire per fare una gita colta solo nei weekend. Ancora una decisione monca, poco coraggiosa e poco lungimirante. Che ci fossero dei problemi nell'ultimo governo di impianto filosofico – di filosofia politica, diciamo - più che organizzativo l’ha dimostrato l’esito di tutto quello che è successo. Io credo che il nuovo Presidente del Consiglio, preso atto del collasso della classe politica che ha governato questo Paese negli ultimi anni, debba tener conto del valore primario - assieme a quello del lavoro, dell'istruzione, della salute e della parità di genere e dei diritti - della cultura, senza la quale la coesione sociale è deficitaria e debole.
Il Museo tra l’altro è un luogo dove dovrebbero sempre più gravitare le nuove generazioni e i giovanissimi per questo motivo.
Spero soprattutto che il nuovo Premier tenga conto dello squilibrio, nell’educazione e sensibilizzazione del nostro Paese, presente tra arte antica e arte moderna e contemporanea. Uno squilibrio che va risolto, proprio perché le nuove generazioni non possono mancare di informazioni e di preparazione a un gusto e a una conoscenza dei linguaggi del contemporaneo. Sarebbero deboli nella competizione mondiale di fronte ai colleghi stranieri.
Io ho fatto il liceo artistico e nonostante questo non ho avuto una preparazione approfondita sull’arte contemporanea: in un certo senso, come dico sempre, la mia università sono stati – di necessità virtù - i musei. Insomma, posso testimoniare che anni fa c’era una carenza nell'insegnamento dell'arte. Com'è ora la situazione?
Peggio ancora, la storia dell’arte resta la cenerentola, come materia, sia nei licei che nelle medie inferiori e superiori e in tutti i comparti formativi. Anche questo è un appello che faccio al Premier: considerare di potenziare l’insegnamento della storia dell’arte fin dalle scuole elementari, perché è fondamentale in un paese come il nostro. E come dicevo prima non solo formare sulla conoscenza del patrimonio diffuso del nostro paese, ma implementare la conoscenza dell’arte contemporanea come sostegno alla crescita del talento. Credo sia importante chiarire che, mentre negli ultimi decenni c’era stata un’insistenza sui valori dello studio scientifico, oggi tutti gli scienziati sono concordi nel ritenere che lo sviluppo della creatività in ogni sua forma (che sia musica, arte, disegno, danza, teatro...) sia fondamentale anche per lo sviluppo delle competenze scientifiche. Bisogna riflettere su questo punto. L’arte è una forma di pensiero elevata.
Parliamo della mostra di Moore del Museo Novecento. Qual è il bilancio, a oltre tre settimane dall'apertura?
Devo dire che abbiamo quasi i numeri del pre-covid e quindi il bilancio è assolutamente positivo. Ma lo immaginavamo: c’è un desiderio, addirittura a un bisogno di tornare nei musei, che probabilmente è aumentato con questo stress dato dall'eccesso di virtualità. Una reazione positiva a tutto questo lavorare e rapportarsi in generale sui social, con riunioni virtuali, che ha però generato una reazione uguale e contraria. Quindi un desiderio di prossimità, di fisicità e di contatto con il luogo museo, con il luogo dell’arte e con le opere.
Questi dati riconfermano quindi l’invalidità del metodo di chiusura per i musei?
A me piange il cuore nel vedere che moltissime persone arrivano il venerdì perché sanno che il sabato e la domenica gli sarà precluso l’accesso al museo. Ma poi stiamo educando le persone a passare il loro tempo libero, il sabato e la domenica, solo nei negozi; va anche bene, ma non può essere l’unica esperienza ludica e “culturale” che gli offriamo. Naturalmente nelle belle giornate le persone si riversano in massa a camminare in centro, ma lo fanno in centri città che sono stati trasformati, già dalla fine dell'Ottocento in poi, in centri commerciali: da quando sono state inventate le vetrine, oltre 100 anni fa a Parigi, i piani terra di tutte le vie cittadine hanno di fatto trasformato in questo modo i centri storici.
Che tipologia di pubblico si è visto in questa particolare situazione, vista l'assenza dei turisti?
La cosa bella è che la mostra di Moore in particolare fa da ponte tra le generazioni. Abbiamo visto passare nella stessa giornata visitatori più anziani, richiamati dalla memoria e dalle emozioni vissute in diretta nella grande mostra dello scultore fatta nel 1972, assieme a giovani incuriositi dalla grande figura di questo artista e forse anche dai racconti fatti dai genitori o dai nonni in casa. Questo è molto bello: vedere il museo funzionare al meglio nel pieno della sua primaria funzione che è quella dell’educazione e sensibilizzazione come ho detto prima, fungendo al contempo da incrocio e confronto tra generazioni. D'altronde nel Museo Novecento è possibile anche perché, in questo momento, convivono artisti dei primi anni del Novecento e giovani artisti come Rocco Guerrieri e Irene Montini. Questo aiuta il confronto, perché rendiamo gli anziani curiosi dell’arte dei giovani senza pregiudizi, mentre i giovani si interessano a ciò che li ha preceduti, che è chiaramente alla base dell'arte odierna.
Le spese della mostra sono state quasi del tutto coperte dal contributo del Monte dei Paschi e da altri sponsor. Il contributo dei privati, oltre a coprire le spese senza gravare sulle casse pubbliche, potrebbe anche portare a un nuovo modo di concepire le esposizioni, con una maggiore attenzione all'interazione e anche all'intrattenimento, come avviene per esempio negli Stati Uniti dove l'intervento dei privati è la norma. È questa la strada da intraprendere?
Penso che questo sia un modello di sostenibilità: una mostra sostenibile, con un budget sostenibile, non i grandi, elefantiaci budget di tante manifestazioni che hanno messo in ginocchio anche il sistema arte. Perché negli ultimi anni abbiamo costruito un’offerta per creare una domanda, ma questa offerta è sempre stata più indirizzata a fare cassa e aumentare la bigliettazione a discapito della progettazione scientifica… i soliti nomi, i soliti artiStar. Bisogna trovare le strategie per rendere più equilibrato il rapporto tra costi di realizzazione di una mostra e rientri. E non è vero che queste grandi mostre blockbuster creano turismo e indotto: quello che è accaduto ne è una prova ed è un allarme. Si può dire che il gigante aveva i piedi di argilla, era un sistema viziato, dopato. Il contributo dei privati per noi è importantissimo perché riusciamo a completare il programma culturale del museo con il 40% di contributi privati. Purtroppo, però, il nostro è un paese che cerca in tutti i modi di “punire” i privati e tenerli lontani dalla filantropia. Fortunatamente pian piano le soluzioni per incentivare i contributi e le partnership sono migliorate, però sono ancora troppo rivolte alla conservazione e non alla produzione di nuova cultura e di nuova arte. C'è uno squilibrio, perche le agevolazioni che si hanno sul restauro non si hanno sulla produzione dell’arte di giovani artisti o sull’acquisizione di donazioni. Per incrementare le collezioni dei musei un meccanismo semplice potrebbe essere l’agevolazione con una deduzione piena al privato che acquista un’opera laddove la doni al museo, esattamente come si fa in America. Certo però, in America hanno un altro problema dovuto al rovescio della medaglia, ovvero che la privatizzazione entra fin troppo negli ambiti delle istituzioni; perciò si leggono notizie come quella di questi giorni relativa al fatto che il Met è pronto a vendere delle opere dai propri depositi. Anche se di per sé non è detto che questo sia un peccato mortale: anzi, forse bisognerebbe cominciare a capire se non sia giusto farlo nel nostro Paese, dove ci sono decine e decine di depositi ricolmi di milioni di oggetti e manufatti la cui maggior parte è in decadenza e necessita di restauro. Non basta incrementare ulteriormente la quantità di musei diffusi nel nostro territorio con spostamenti delle opere, perché poi inevitabilmente andando a locare opere da depositi di grandi musei in musei piccoli si presenteranno problemi di gestione e di sorveglianza, di natura soprattutto economica. Quindi adottando leggi, norme e controlli adeguati, probabilmente una circuitazione maggiore del patrimonio (laddove ovviamente non si tratti di opere di pregio assoluto) potrebbe effettivamente rappresentare un fatto positivo. Sarebbe uno scambio reciproco: la quasi totalità dei grandi musei fiorentini, ad esempio, sono nati da collezioni private, c’è sempre stato uno scambio virtuoso tra il privato e il pubblico. Si potrebbe considerare di imporre al privato di esporre l’opera, o donarla, cederla in comodato per renderla visibile al pubblico. Un po’ come fanno grandi esempi come Banca Intesa con le Gallerie d’Italia.
Tornando all'assenza dei turisti, che effetto fa Firenze senza di loro? E da l'impressione di poterne fare a meno - non che lo si voglia, si intenda - o è ormai troppo orientata sulla formula di "parco rinascimentale" a tema?
Firenze deve assolutamente cambiare prospettiva: non si può continuare a vivere di rendita di posizione subendo peraltro uno sfruttamento esagerato e ormai insostenibile del proprio patrimonio. Il problema è che la rendita di posizione non è solo un fatto di economia familiare in questa città, ma è diventato un fattore ideologico e antropologico. E la rendita di posizione è aumentata a dismisura, con l’unica prospettiva di vita e produzione culturale orientata a vantaggio dell’incremento del turismo di massa. Ritornare a far tirare la volata ai soli Uffizi vuol dire sperare di nuovo in un ritorno massiccio del turismo di massa. Che di per sé è un bene se gestito e governato nel giusto modo e soprattutto con un ritorno non solo in termini pecuniari e di profitti ma in termini di crescita culturale, di modernizzazione e di innovazione della città; altrimenti è un meccanismo che collassa quando ci sono situazioni come quella della pandemia in cui ci troviamo, ma gia un avvertimento l’avevamo avuto con le torri gemelle, che portarono per un biennio all’abbattimento del turismo americano, che è molto importante perche è un turismo di qualità. Oggi il problema si ripresenta con i nuovi turismi come il cinese, il russo, l'arabo che sono quelli che negli ultimi anni hanno fatto i numeri. Questo significa chiaramente che c'è qualcosa che non va a piu livelli: la città è stata messa in ginocchio, quindi una città a parco tematico non si puo più contemplare. Firenze deve tornare ad essere una città laboratorio, fucina d’arte e di cultura come fu – questo sì! - nel Rinascimento, quando Firenze era la citta più contemporanea e più all’avanguardia in Europa e nel mondo. Quindi bisogna puntare al turismo di qualità, anche per il bene alberghiero, commerciale e della ristorazione. Occorre gestire i flussi turistici in altre direzioni, alla scoperta di una città molto più interessante nella sua diversità e varietà, una Firenze molto più contemporanea e non schiacciata unicamente dentro la culla del Rinascimento. Anche perché questo bambino è cresciuto e non ci sta più nella culla.
Ci racconta del Manifesto del "Museo del Futuro" lanciato da lei con Sylvain Bellenger e Giovanni Iovane?
Penso che il documento andrebbe consegnato al nuovo Premier Draghi. Si tratta di un manifesto che ha tre anime: quella di un’accademia di Belle Arti prestigiosa e storica come Brera; quella di un museo complesso, peculiare e particolare come Capodimonte che è forse unico nel panorama italiano nel contemplare un grande parco con una collezione che va dal medioevo al contemporaneo; e poi un museo d’arte moderna e contemporanea come il Museo Novecento. Noi sosteniamo che i musei non possano più basarsi solo sulla conservazione, ma dovendosi rivolgere alla tutela di un patrimonio debbono concentrarsi sulla sua valorizzazione; non possono basarsi solo sulla mediazione culturale tradizionale, ma devono sviluppare una mediazione culturale con tutti i nuovi sistemi e le nuove pratiche tipiche e necessarie del nostro tempo. Occorre rafforzare con decisione la formazione, non solo quella del pubblico, ma anche quella della classe dirigente, oltre alla formazione artistica: ecco perché pensiamo alle “residenze artistiche” e abbiamo definito il museo “Istituto Culturale” e “Campus” e non più “museo”, in un interfacciarsi continuo con le altre discipline, dall'antropologia alle scienze, alla musicologia o alla biologia. L’interdisciplinarietà come elemento fondamentale per la vita e il funzionamento del Museo, quindi. Abbiamo già identificato degli spazi che diventeranno appartamenti e atelier per artisti, curatori e storici dell’arte. Inoltre noi stiamo per uscire con la rivista del museo, che è una cosa importantissima perché frutto di un laboratorio di studi e di ricerca, e stiamo avviando una scuola di formazione di curatori con l’Università di Firenze.
Quanto sperimentato in queste prime settimane di apertura in condizioni particolari ha portato nuovi elementi di spunto per il Manifesto?
Avevamo già ben chiara la visione, anche se poi certamente un manifesto deve sempre essere capace di rinegoziare i propri principi sulla base dell’esperienza e dei cambiamenti, che peraltro sono ormai velocissimi da più di un decennio. Si sente parlare di società fluida, ma ormai direi si tratti addirittura di una società “quantica”, per cui viviamo esperienze fatte soprattutto di relazioni e di connessioni. Perché alla fine poi tutto è connesso.
A proposito di connessioni, ritiene ci possa essere una funzione utile e costruttiva dei social media in una nuova visione museale? E quale?
Certo! La prova è ora, in questo momento, con te. Io di mio forse sono stato il primo a sostenere l'importanza del prendere atto della nuova era in cui ci troviamo da tempo: pubblicai un articolo in merito all’inizio del primo lockdown, sul tema della complementarietà tra museo “reale” e “virtuale”, in barba ai puristi che ritenevano degradante e offensiva l’esperienza di una visita virtuale di un luogo d'arte. Siamo ormai (e sempre più date le circostanze) persone che vivono in più dimensioni, connesse su più livelli e interagiamo continuamente spostandoci tra una dimensione virtuale a distanza e una di prossimità. E l'una non deve eliminare l’altra: non è indubbiamente sostituibile l'abbraccio di una persona con un “abbraccio virtuale”. L'unica preoccupazione è rivolgere l'attenzione al non avviarci ad occhi bendati sulla strada dell’inumano; i social, però, portano tantissimo. Sono senz'altro la voce delle giovani generazioni: non a caso nello staff del nostro museo la persona responsabile della comunicazione tramite social è molto giovane. Ho due figli di 14 e 19 anni e nonostante io ami Bach, e abbia poi imparato a conoscere Eminem, ora capisco che anche lui è a sua volta da più che adulti: mi rendo conto che la gioventù incalza. Per mio figlio Facebook è da anziani e quindi le nuove generazioni sono proprio su altri fronti. Ora sta arrivando ClubHouse, ad esempio.
E cosa pensa di ItsArt, la cosiddetta “Netflix della Cultura” lanciata da Franceschini?
Devo dire che sono una persona molto aperta a sviluppare e sperimentare tutti i nuovi mezzi di comunicazione, ma come dicevo l’importante e avere sotto controllo la filosofia a monte. Chi dirige l’orchestra deve sapere cosa suoniamo, con quale pubblico e con quale finalità. Secondo me semplicemente avere chiara la filosofia, l’approccio e la finalità. Poi tutto può servire, perché l’essere umano è un essere tecnologico: oltre ad essere contemplativo e produttore di arte, produce anche tecnologia, che è sempre stata a servizio dell’uomo nel bene e nel male. Io propendo ovviamente per il bene e quindi massimo incentivo a tutte le sperimentazioni tecnologiche che aumentano la capacità di condivisione culturale, la capacità di apprendimento e sviluppo e cura del talento. Ancora, non deve esserci finalità di profitto che subentri a quelle primarie. Per questo ci deve sempre essere anche una attenzione etica oltre che filosofica dentro la tecnologia. Che possa indirizzare le nuove tecnologie verso un nuovo umanesimo e non verso una società completamente inumana.
Se ItsArt dovesse diventare uno strumento in più per le grandi società che gestiscono e governano il turismo di massa a livello mondiale, questo per me sarebbe un problema. Se invece diventasse un modo per valorizzare non solo i contenuti, ma anche le persone a cui viene diretto il messaggio del contenuto, questo andrebbe benissimo. Il profitto deve essere un benessere spirituale, emozionale, conoscitivo, cognitivo delle persone. Non può esserci sempre il solito profitto di mercato: senza togliere nulla al mercato, io nasco da una famiglia pratese e so cosa siano il mercato e la competizione e ne riconosco l’importanza nella nostra civiltà; ma guardiamo i contenuti prima di tutto. E vero poi che, come dice McLuhan, messaggio, strumento e mezzo si contaminano a vicenda, però dall’altra parte dobbiamo anche considerare di nuovo forma e contenuto basandoci sempre sulla qualità.
Se ItsArt dovesse diventare solo una piattaforma di spot pubblicitari del BelPaese, resteremmo un paese pittoresco e non un paese protagonista nella cultura mondiale. Ribadisco che non dobbiamo vivere sulla rendita di posizione, ma produrre rinnovando lo sguardo e l’interpretazione della lettura del nostro patrimonio. Se il primo film del “Netflix della Cultura” fosse l'ennesimo sulla Venere di Botticelli per me sarebbe inutile… meglio fare altro. Io non ho nulla contro la Ferragni, però vedere in libreria un librettino pubblicato su di lei come Influencer con in copertina la foto della Venere di Botticelli invece della sua, mi fa scadere tutto. Mi sembra che tutto sia un gioco al ribasso e non al rialzo. Quando ho scoperto la realtà degli influencer mi si è aperto un mondo, ma se si tratta di arte mi interessa l'approccio di chi dell'arte si occupa, come fai tu. Sono solo felice di poter dialogare con chi ha la passione e l’amore per l’arte perché e quello che mi domina da quando ho 5 anni; e spero di poterlo trasmettere a tutti, e se attraverso i social come fai tu riesco a trasmetterlo anche ai giovani ben venga! Ma voglio trasmettergli qualcosa che alzi la qualità, se per incontrare il consenso si deve deprimere ed abbassare la qualità non mi va bene.
Ricordo che quando iniziarono a vendere le enciclopedie e i libri in edicola ci fu una sorta di “rivoluzione intellettuale”: tanti miei colleghi che vivono nella torre eburnea fatta solo di privilegi e di chiusura stigmatizzavano la commercializzazione del sapere nelle edicole. Io scrissi che ero felicissimo, perché poter andare a comprare un giornale e trovare un libro su Munch, su Brancusi o su Pontorno potendolo comprare a basso costo significa democratizzare l’amore per l’arte, rendere accessibile a tutti l’arte e personalmente vorrei che tutti fossero tifosi dell’arte. Vorrei più tifosi dell’arte che del calcio.
E che lo fossero fin da piccoli: la cosa che più mi sta facendo male ora è non vedere i bambini e i ragazzi delle medie inferiori nel museo a sorprendersi davanti al cranio di elefante di Henry Moore, a disegnare nel mezzo della sala prendendo spunto dalle radici degli alberi piuttosto che dalle mani dell’artista... non vedere i bambini nel museo per me è davvero pesante, perché è come se non vedessi il futuro e mi confrontassi solo con il passato.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.