U n secolo e un anno fa (nell'estate del 1912) nasceva a Brooklyn da genitori poverissimi provenienti dall'Europa orientale uno degli economisti destinati a segnare in profondità non soltanto lo sviluppo delle scienze sociali ma la storia stessa del Novecento: Milton Friedman. Celebrato per gli scritti sulla metodologia della ricerca, sulla storia e sulla teoria della moneta, sulla funzione di consumo, questo studioso sarà insignito del Premio Nobel nel 1976 ed eserciterà un enorme impatto sulla società americana e, di conseguenza, sul mondo intero.
Senza questo autore e senza la Chicago School, che egli più di chiunque ha contributo a imporre all'attenzione generale, molte tesi di orientamento liberale continuerebbero a essere ignorate. Anche nelle università italiane quando capita d'incontrare un economista non allineato con l'interventismo egemone quasi certamente si tratta di qualcuno che - in modo diretto o indiretto - è stato influenzato dalle tesi friedmaniane. In campo teorico egli ha dunque incarnato l'equivalente di ciò che Margaret Thatcher e Ronald Reagan sono stati sul piano storico-politico. La svolta ideologica a favore del mercato che negli anni Ottanta ha segnato i Paesi di cultura anglosassone non sarebbe stata così significativa se in precedenza Friedman non avesse messo in discussione le tesi keynesiane e la curva di Phillips (e soprattutto la pretesa di risolvere la disoccupazione con l'inflazione), non avesse criticato la presenza dello Stato nella vita economica, non avesse proposto ampi progetti di privatizzazione delle aziende pubbliche e la generale liberalizzazione di ogni settore. Incline alla provocazione e pronto alla battuta, quando venne in Italia contestò la crescente statizzazione della nostra vita economica, aggiungendo perfino che il nostro sistema produttivo si troverebbe in condizioni peggiori senza evasione fiscale.
Molte sue idee, ovviamente, sono state aspramente contestate: spesso in maniera pretestuosa. È ormai un cliché, ad esempio, quello che lo associa alla dittatura di Augusto Pinochet, solo perché alcuni dei ministri del generale cileno si erano effettivamente formati nel dipartimento di economia di Chicago e hanno poi introdotto riforme di taglio liberale (in tema di pensioni, ad esempio) ispirate dalla sua lezione. Di segno opposto sono invece i rimproveri di chi contesta qualche specifico progetto di riforma, giudicandolo troppo moderato. E così se i libertari considerano inaccettabile l'imposta negativa sul reddito (gli aiuti monetari di Stato per i più deboli), gli studiosi di scuola austriaca avanzano più di una critica al monetarismo e all'idea di una Banca centrale autorizzata ad aumentare la quantità di moneta sulla base della crescita complessiva.
Certamente vi sono stati autori, basti fare il nome di Murray Rothbard, che sono ben più «rocciosi» nella loro avversione allo Stato. Forse nessuno ha però avuto sulla massa e sulle scelte politiche dei governi un impatto che possa essere paragonabile a quello esercitato da Friedman. Per giunta, quest'ultimo non soltanto si è molto speso - quale figura pubblica - per vincere i luoghi comuni dominanti, ma ha pure saputo elaborare un'efficacia comunicativa che, a distanza di decenni, continua a sorprendere. Per questo è molto positivo che, grazie al sito dell'Istituto Bruno Leoni, a partire dal 2 settembre ogni lunedì sarà possibile apprezzare (sottotitolate in italiano) le dieci puntate della serie televisiva del 1980 intitolata Liberi di scegliere, a partire dalla quale egli scrisse pure un libro a quattro mani con la moglie Rose. Quando tutti i video saranno disponibili, lo stesso libro sarà messo sul mercato da IBL Libri, con una nuova prefazione di Francesco Giavazzi.
Come già era accaduto con l'altro grande classico della divulgazione friedmaniana (Capitalismo e libertà, del 1962), Liberi di scegliere pone al centro dell'analisi la libertà d'iniziativa, la proprietà, il contratto, enfatizzando come una società libera sia un processo di ricerca e di crescita costanti. Usando esempi assai efficaci, l'economista americano evidenzia il legame assai stretto tra la libertà e la civiltà, e a tal fine mostra come troppe tasse e troppe norme possano distruggere una società e toglierle ogni speranza di progresso, nel momento in cui impediscono l'emergere di relazioni volontarie e coordinate.
Non è un caso se il primo ministro estone degli anni Novanta, lo storico Mart Laar, a chi gli aveva chiesto dove avesse trovato ispirazione per le sue politiche assai liberali (volte a ridurre l'area dell'intervento pubblico), abbia molto semplicemente risposto di aver letto con grande attenzione proprio quel libro.
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