La Grande guerra fece vincere tante battaglie alla medicina

Antibatterici, sulfamidici e antibiotici sono figli degli orrori bellici. E i primi farmaci antitumorali nacquero dai terribili "gas mostarda"

La Grande guerra fece vincere tante battaglie alla medicina

nostro inviato a Gorizia

E se la guerra alla fine non fosse poi così diversa da un'epidemia? Beh allora la Prima guerra mondiale sarebbe un'epidemia mai vista, che mise a dura prova tutti i medici dell'epoca. È questa la chiave di lettura con cui a èStoria, il più importante festival di storia del nostro Paese, Giorgio Cosmacini, storico della medicina e autore di Guerra e medicina. Dall'antichità a oggi (Laterza) ha affrontato il centenario di quel conflitto. Un'ottica particolare e curiosa anche per chi è abituato a frequentare la letteratura a tema bellico. Spiega Cosmacini: «La Grande guerra è stata una svolta per la medicina, una paradossale fonte di progresso. La necessità di curare un numero enorme di feriti ha costretto i medici a porsi una serie di problemi nuovi». E i risultati positivi li possiamo apprezzare anche oggi.

Bombe, shrapnel, proiettili supersonici che danneggiano i tessuti: la chirurgia del fronte doveva occuparsi di un numero altissimo di ferite. E molti dei medicinali in grado di contrastare le infezioni erano ancora sconosciuti. «Si moriva di setticemia, di cancrena gassosa. Non erano le ferite in sé a uccidere. Spesso erano gli esiti del tetano, delle complicanze settiche delle fratture», spiega Cosmacini. «E non c'erano i sulfamidici e gli antibiotici». Però arrivò una prima forma di medicazione antibatterica: la soluzione di Dakin-Carrel. Alexis Carrel era un chirurgo (geniale nelle suture e premio Nobel nel 1912) e biologo francese, Henry Dakin era un chimico americano. Inventarono una soluzione a base di ipoclorito di sodio e acido borico. Oggi è superata, ma allora determinò una svolta enorme, poiché il suo impiego abbatteva la mortalità. Stesso discorso per la tintura di iodio, inventata nel 1908 dal medico italiano Antonio Grossich. Secondo Cosmacini, «a Verdun, dopo i pesantissimi combattimenti, le statistiche francesi ci dicono che il 90 per cento dei feriti non trattati con la soluzione Dakin-Carrel morì. Tra quelli trattati la mortalità scendeva al 10-15 per cento».

Fu proprio la guerra a insegnare ai medici di concentrarsi sulle infezioni, dando vita a quel grande sforzo che condusse alla scoperta dei sulfamidici prima e degli antibiotici poi. Sia Gerhard Domagk sia Alexander Fleming erano stati ufficiali durante la Prima guerra mondiale. Ma in alcuni casi il legame tra le armi e lo sviluppo della medicina può essere davvero incredibile. Racconta Cosmacini: «Durante la guerra sono stati sviluppati moltissimi gas, come i nervini o i cosìddetti “gas mostarda”. Ebbero effetti devastanti, eppure i primi chemioterapici sono nati proprio dal reindirizzamento degli studi per la produzione di quei gas. Ora la chemioterapia ha fatto passi da gigante, ma il punto di partenza è stato lì». Anche il concetto di pronto soccorso e riabilitazione dei mutilati deve molto al conflitto. Basta pensare al caso molto letterario di Hemingway. «Faceva il barelliere, venne colpito a sua volta al ginocchio. Sarebbe rimasto zoppo per tutta la vita, ma le radiografie, appena inventate, consentirono di valutare bene la ferita e la riabilitazione, fatta al padiglione Ponti di Milano, di prevenire la zoppia. Addio alle armi è figlio dei progressi della medicina».

Ma la Grande guerra ci ha dato anche altri lasciti sotterranei e impensabili. Strano a dirsi, soprattutto a tavola. Questa parte della storia che sostituisce alla bomba a mano la gavetta l'hanno raccontata ieri Alessandro Marzo Magno, autore di Il genio del gusto. Come il mangiare italiano ha conquistato il mondo (Garzanti), e Maria Muzzarelli, storica del costume dell'Università di Bologna. Spiega Marzo Magno che l'abitudine italica di far colazione con il caffè deve molto alla battaglia del Piave. «C'era bisogno che i fanti stessero ben all'erta per non far passare lo straniero. Quindi, dovevano bere caffè, sino ad allora una bevanda riservata ai borghesi. La circolare del novembre 1917 del regio esercito prevedeva che al mattino venissero distribuiti 8 grammi di caffè e 10 di zucchero. E nel tempo le dosi furono aumentate. I soldati, una volta tornati a casa, continuarono a bere caffè al mattino, mutando in tal modo per sempre la prima colazione degli italiani». Gli austriaci, più tecnologici e meno gastronomici, risposero con il Kaffeekonserve, ovvero caffè liofilizzato, inserito nella dotazione individuale. Poteva essere sciolto nell'acqua, sia a caldo sia a freddo, dava molto sostegno e poteva diventare un salvavita.

Su tutti i fronti quella alimentare diventò anch'essa una battaglia industriale. I tedeschi, trovatisi a mal partito a volte scatenarono attacchi locali sul fronte occidentale soltanto impossessarsi della carne in scatola degli inglesi... Gli italiani diventarono maestri nel tonno in scatola, spesso l'unico modo per far arrivare proteine in zona di combattimento.

Nascevano contemporaneamente la fame cronica del soldato e l'industria alimentare, lo strazio del corpo e la sua cura. Nella nostra dispensa, e nel nostro armadietto dei medicinali, ormai resta solo la seconda parte del paradosso.

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