Era l'autunno del 1989. E se a Berlino il Muro stava per cadere, nell'Europa tutta s'ergeva la potenza dell'islam sotto le spoglie del velo.
Trent'anni fa, oggi, iniziava proprio «la querelle del velo». A Creil, lo stesso anno della fatwa contro i Versi satanici di Salman Rushdie, tre liceali si rifiutavano di togliere il velo in nome del rispetto per la loro religione, l'islam. E nel Paese della laicité iniziava, ufficialmente, l'eterno scontro con l'islam politico.
Leila, Fatima e Samira vennero escluse dalle lezioni per l'ostentata pretesa di coprire il capo in nome di Allah. Una decisione, quella del preside del Gabriel-Havez, che fece davvero prestissimo, e contro ogni previsione, a finire al centro dei dibattiti: un pezzo di stoffa di cui davvero pochi avevano parlato fino a quel momento, inaugurava la rivoluzione islamica in Europa. Les tchadors de la discorde, fu il pezzo del 9 ottobre 1989 pubblicato su Le Figaro nel quale il corrispondente di allora aveva raccolto le esternazioni delle adolescenti nell'ufficio del preside: «Siamo pazze di Allah, non ci toglieremo mai il velo: lo terremo fino alla morte».
Il preside del liceo di Creil, Ernest Chénière, giudicò quel gesto eversivo come un attentato contro il secolarismo, richiamò le ragazze, convocò il consiglio di amministrazione, scrisse una lettera per spiegare le sue ragioni.
Il caso finisce sulla scrivania del ministro dell'Istruzione - che lascerà poi a presidi e professori la libertà di decidere come comportarsi: la Francia affronta il dibattito sociale più lungo della sua storia, sullo sfondo la scuola, gli attori sono delle adolescenti, la religione islamica fa da regista. Quel velo sarà il primo sasso lanciato nel mare dell'islamizzazione e i cerchi concentrici restano infiniti.
A fine ottobre le studentesse torneranno in classe, ma senza velo. E viene anche chiesto loro di «interrompere ogni forma di proselitismo religioso nella scuola, di frenare il loro comportamento aggressivo specie contro gli studenti musulmani meno osservanti». Piccoli focolai s'accendono nel Paese. Da Creil fino a Marsiglia, passando per Avignone, dove, in protesta contro la sanzione a una ragazza islamica, otto studenti si presentano con il velo.
L'opinione pubblica è squarciata, la classe politica tergiversa, non approfondisce, procrastina e annuncia quindi la futura codardia di fronte a quella che la storia rivelerà essere stato il primo vagito dell'offensiva islamista in Francia. Malek Boutih, allora vicepresidente di Sos Racisme, trova «scandaloso che si possa in nome della laicità intervenire nella vita privata del popolo, per maltrattare le convinzioni personali». Danielle Mitterrand, moglie del presidente della Repubblica, difende il rispetto delle tradizioni e chiede che le ragazze velate siano accettate a scuola. Nel novembre 1989, il più alto tribunale amministrativo afferma che fintanto che non costituisce «un atto di pressione, provocazione, proselitismo o propaganda», l'espressione di credenze religiose non può essere bandita a scuola.
Nel 1994 arriva la cosiddetta «circolare di Bayrou». Nel 2004 viene approvato il disegno di legge di Chirac che proibisce i simboli religiosi evidenti nelle scuole, perché la diffusione del velo sembra non avere limiti. Nel 2010, il Parlamento approva la legge che vieta il velo integrale nei luoghi pubblici. Nel maggio 2019 un emendamento vieta i simboli religiosi alle mamme che accompagnano i loro figli in gita: niente crocifissi e niente hijab. Ma insorgono le comunità musulmane. Se in Italia, infatti - dove il crocifisso forse no, lo hijab forse sì - il secolarismo è una forma di cultura che al taglio delle proprie radici storiche fa corrispondere l'odio per la propria civiltà, la «laicità» alla francese implica invece la chiusura a ogni ruolo pubblico delle religioni. E quando Macron sentenzia contro «la radicalizzazione del secolarismo» lo fa in virtù di una strategia chiara: ostracizzare il secolarismo per ergerlo a nuovo avversario, in modo che l'islam politico non sia un problema, ma la resistenza a esso, sì. Perché il problema del velo islamico sta nel fatto che non esiste una solida giustificazione religiosa per il suo utilizzo. Non è un mero simbolo religioso. Il velo è il simbolo per eccellenza del sogno di rilanciare l'islam come alternativa globale, religiosa e politica.
In area islamica la femminilità da sempre viene associata alla concupiscenza. Se sei donna, allora, il preteso peccato mortale nel mostrare per esempio i capelli e il collo (parti del corpo dalle quali l'uomo non riesce a non sentirsi adescato) rischia di diventare reato. Eppure lo hijab, storicamente, non ha mai rappresentato un dogma nella religione islamica o un simbolo religioso. Nel 2004, Khaled Fouad Allam sottolineava che il bisogno di ricamare sul velo una teoria del diritto non era proprio contemplato, nell'islam classico, dai giuristi. Lo hijab, infatti, compare solo nel XIV secolo. E non si trova alcun riscontro effettivo di questa parola nel Corano. Il giurista Ibn Taymiyya è il primo a utilizzarla. E lo fa prendendo spunto da una interpretazione del versetto 31 della sura 24 del Corano. Nell'estrapolare un'affermazione, dal contenuto generico, le attribuisce valore di norma.
Dall'Afghanistan al Marocco, passando per Egitto, Iran, Turchia, Tunisia, Pakistan, Giordania c'è stato un tempo in cui - fino agli anni '80 - velarsi era considerato anormale. Poi la sharia, la legge di Maometto in vigore nel VII secolo, venne implementata in molti di questi Paesi sotto una spinta reislamizzante. Quel velo voleva creare un confine che separi. In Paesi a maggioranza non musulmana può trasmettere anche un messaggio politico di occupazione del territorio e delle anime.
Trent'anni dopo i fatti di Creil, il velo è ancora al centro del dibattito. Per qualcuno è diventato sinonimo di libertà.
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