«Oggi praticamente tutto può essere architettura». Hans Hollein, uno dei grandi maestro della progettazione della seconda parte del XX secolo, è morto ieri a Vienna dopo una lunga malattia. Nato nella capitale austriaca nel 1934, Hollein era considerato il padre dell'architettura radicale, definizione coniata dal critico Germano Celant per inscatolare tutti gli sperimentalismi e i sommovimenti culturali innescati nel campo dell'architettura alla fine degli anni Sessanta. «Il nostro impegno è rivolto all'ambiente come totalità, e a tutti i mezzi che lo determinano. Alla televisione come al mondo dell'arte, ai mezzi di trasporto come all'abbigliamento, al telefono come all'alloggio», aveva scritto in un celebre articolo pubblicato su Bau nel 1968, sdoganando di fatto l'impegno dei propri colleghi a trecentosessanta gradi, con un'intuizione che metteva il progetto e non la sua realizzazione al centro della riflessione della propria disciplina.
Ma Hollein è stato anche un grande costruttore, forse il più significativo interprete del post-modernismo. Priztker Prize nel 1985, ha vissuto due straordinarie stagioni produttive. Alla prima appartengono il Museo Municipale di Mochengladbach e la ristrutturazione del Museo del vetro e della ceramica di Teheran, testimonianza sorprendente dell'avanzamento del dibattito architettonico nell'Iran di Reza Pahlavi. La seconda, negli anni Novanta, quando veniva guardato dalle archistar emergenti come il punto più avanzato di una ricerca che trattava disinvoltamente le forme architettoniche con una non celata attitudine artistica. In Hollein stavano assieme i geni della grande scuola danubiana di inizio Novecento e l'estroversione con cui mescolava tutti i linguaggi del contemporaneo. Spesso per le sue realizzazioni si è speso il termine, un po' riduttivo e in fondo ingeneroso, di «ecclettismo»: Hollein non era un compendiatore, ma un'intelligenza straordinariamente mobile e destrutturata, che ha prodotto lasciti come il distretto culturale di St.
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