Ma il liberismo merita la sua pessima fama?

Alcuni vedono un nesso tra le dottrine di friedman & C. e la crisi. Ma è un tentativo di occultare il fallimento di imprenditori allergici al rischio e sindacati preistorici

Ma il liberismo merita la sua pessima fama?

A leggere certe analisi - non solo dei collaboratori del Manifesto ma altresì dei liberali dell'establishment poco disposti a «bersi la favoletta della mano invisibile» -, sembra di vivere in un Paese in cui la piovra liberista e una legislazione dettata da Milton Friedman e dalla sua scuola hanno vomitato eserciti di disoccupati, riempito carceri e centri di assistenza, devastato i paesaggi urbani e le campagne, incoraggiato speculatori ed evasori fiscali, sconvolto costumi antichi, fatto aumentare, a livelli preoccupanti, la devianza-droga, prostituzione, rapine, omicidi etc.
Sennonché, agli studiosi che onorano le patrie lettere mi permetto di chiedere umilmente: qual è il nesso tra «liberismo» e collasso del sistema Italia? In quale pagina del geniale Bastiat si è teorizzata la necessità di allestire colossali carrozzoni come le Regioni - e, soprattutto, quelle a statuto speciale - che continuano a inghiottire miliardi di euro? In quale libro di Luigi Einaudi si è consigliata quella sinergia tra pubblico e privato che ha cementificato luoghi di leggendaria, sovrumana, bellezza come i Campi Flegrei di Napoli, il litorale di Taranto, la Val Polcevera di Genova? L'abbandono dei campi, in conseguenza di una fiscalità implacabile, è stata anch'essa una conseguenza del liberismo? I mostri urbani, che si vedono entrando a Genova da Nervi o da Sampierdarena, la devastazione di monti e colline incantevoli che un tempo assicuravano alla città, nei giorni più torridi dell'estate, un clima ventilato da isole greche, sono tutti effetti di una forsennata avidità di guadagno che non rispetta né le memorie storiche né la salute degli uomini? La sovrabbondanza di personale negli uffici pubblici - i 24mila forestali della Regione Sicilia, a esempio - si deve alla lezione di Hayek che, stando a un giovane allievo di Domenico Losurdo, Paolo Ercolani, «si opponeva al suffragio universale, che detestava anche soltanto l'idea di giustizia sociale e che riteneva il mercato l'unico vero elemento di giustizia e sviluppo di una società libera, in cui la politica dovrebbe recitare un ruolo quanto più possibile minimale»? (Queste profonde riflessioni sono ospitate sulla rivista Critica liberale, organo dei «critici del liberalismo» di ispirazione neo-azionista).
Insomma ho l'impressione che, dopo aver messo a confronto i guasti reali del welfarismo all'italiana con tutto il passivo inevitabilmente generato (e dovunque) dall'economia concorrenziale, attribuire la causa dei nostri guai al «mercatismo» dilagante sia la tipica operazione ideologica «sezionalista» con la quale imprenditori e affaristi, dilapidatori delle finanze pubbliche, da un lato, e cooperative e sindacati operai, che da quelle grassazioni hanno visto garantito il posto di lavoro, dall'altro, cercano di scaricare sul «fantasma liberista» il baratro in cui sta precipitando il Paese.
Le perdite dei posti di lavoro, in conseguenza delle mutevoli configurazioni dei mercati, sono una vera tragedia, che nessun Pangloss del «liberismo» - ma io non ne ho incontrato nessuno in Italia - potrebbe indurre a sottovalutare. Non dimentichiamo, però, che in un'economia bloccata e colonizzata dai poteri pubblici e dalle loro logiche perverse, la tragedia non è la disoccupazione ma la disoccupazione senza mobilità sociale. Ribadire oggi l'einaudiano «primato della politica sull'economia», «riconoscere che non necessariamente “privato” significa “virtuoso” e “pubblico” coincide con “dannoso”» serve solo a conservare l'esistente. Finiamola con la retorica: per nessun liberale classico, «privato» significa «virtuoso»: anzi la virtù del privato per gli incunaboli della «dottrina» - vedi Mandeville - sta nel non essere «virtuoso» ovvero nell'attitudine a operare e investire seguendo il proprio interesse (ragionevole). Ma neppure vi sono mai stati, a ben guardare, veri liberali pronti a identificare «pubblico» con «dannoso»: nei Paesi anglosassoni, in Germania e nella stessa Francia, amministrazione e «burocrazia» sono sinonimi di efficienza, razionalità, protezione dei diritti individuali.
In Italia, il cancro non sta nel liberismo (buono o cattivo, da noi mai veduto) ma nel ricordato intreccio perverso di Stato e partiti, da una parte, e associazioni padronali e operaie, dall'altra: è il loro «compromesso storico» - la nostra peculiare «economia sociale di mercato» - la causa profonda dell'attuale declino. Si rassegnino i nostri intellettuali-liberali ma «con juicio»: col buco nero del nostro bilancio statale, né La ricchezza delle nazioni di Smith né le Armonie economiche di Bastiat hanno nulla a che vedere.

Temo, però, che lo sappiano fin troppo bene e che, pertanto, Hayek svolga oggi la stessa funzione assegnata al superuomo di Nietzsche nell'Italia del primo Novecento: quella di spaventare i benpensanti e di riportarli nel seno dell'ortodossia (che oggi non è più quella religiosa ma quella della vulgata fascista, postfascista e postcomunista: «né la selva liberista né la caserma collettivista!»).

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