Il profeta della lentezza nell'epoca della velocità

Il fotografo Ivo Saglietti: "Ciò che mi interessa è cercare di documentare e di capire il destino dell’uomo"

Il profeta della lentezza nell'epoca della velocità

Ivo Saglietti è un fotografo italiano nato in Francia. Vincitore di tre World Press Photo, ha girato il mondo raccontandolo con empatia e una profonda sensibilità umanistica. In occasione del workshop di cinque giorni che terrà a breve a Marsiglia, gli abbiamo rivolto qualche domanda per conoscere meglio il suo lavoro e il suo modo di sentire.

Signor Saglietti, da dove viene la sua decisione di fare il fotografo? Come interpreta questo lavoro?

Beh, quando ero giovane pensavo per me a una vita che non fosse “da ufficio”, e in realtà ho cominciato col cinema, facendo documentari. Poi un giorno girando per un mercato ho trovato su una bancarella un libro fotografico di Eugene Smith, che aveva fatto delle foto su degli scarichi di arsenico in Giappone che avevano causato diverse deformazioni fra la popolazione. Era un libro talmente commovente ed emozionante che io mi sono detto “ecco, io vorrei fare questo mestiere”. Così mi sono comprato la mia prima Leica e ho cominciato la mia vita da fotografo: c’era tanto entusiasmo, ma anche un po’ di fame. Ciò che mi interessava era soprattutto cercare di documentare e di capire il destino dell’uomo. Oggi mi rendo conto che era un po’ presuntuosa come idea, ma per me la fotografia è sempre stata legata all’uomo, alle sue vicende, ai suoi drammi, ma anche alle sue gioie.

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Oggi però le persone sono quasi assuefatte alle immagini, quindi com’è possibile veicolare questo messaggio e raccontare queste storie?

Questo è in realtà un grande problema. Credo che la responsabilità di tutto ciò sia la velocità con cui viviamo, e io sono un profeta della lentezza. Mi accorgo che oggi gli stessi giornali si occupano di una notizia per pochissimo tempo e nei giovani c’è una mancanza di memoria preoccupante. I giovani non leggono, e non c’è più neanche quel valore che ho provato io da ragazzo quando mi sedevo per terra e ascoltavo i grandi che raccontavano le loro esperienze della guerra e del lavoro. Trovo che avere una coscienza di questo tipo sarebbe molto importante nella fotografia odierna, invece vedo foto scattate in Libia e foto scattate in India e sono tutte uguali, non sono mai così profonde e complesse come dovrebbero essere. È il pensiero l’origine di una fotografia. La fotografia è un oggetto che non parla, ci vuole cultura per poterla leggere e comprendere.

Qual è quindi il suo modo di andare lento? Come costruisce il suo momento di lavoro con la macchina fotografica?

Io cerco sempre di prendermi del tempo, e tendenzialmente lavoro su progetti a lungo termine. Ne ho iniziato uno sul paesaggio della frontiera e mi sono dato tre anni per completarlo. Per me sono importanti anche i film e la lettura: sono innamorato di un regista greco, Angelopoulos, che ha sempre lavorato su storia e paesaggio, ed è lui il mio profeta, lui e il mio grande padre spirituale Albert Camus, di cui sono un vorace lettore. Poi non mi faccio illusioni. A me basta che qualcuno guardi le mie foto per più di un nanosecondo, ma oggi è difficile che una foto possa avere lo stesso impatto che aveva in passato, sempre a causa della velocità. Mi succede spesso di parlare e non essere ascoltato, quindi perché la gente dovrebbe ascoltare le mie fotografie? Io sono ancorato a una fotografia del passato, ho un ritmo lento, dettato anche dall’utilizzo della pellicola. Credo nel prender le corriere invece del freccia rossa, nel guardare dal finestrino, nel parlare con gente che non conosci, infatti da Genova a Marsiglia viaggio in pullman. Il resto del mondo non è più così. Non mi va molto a genio, ma è l’unico mondo che c’è.

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Le è mai capitato di vivere un momento in cui ha preferito non scattare una foto e tenere un’immagine per sé?

Certo, mi è capitato. Per esempio in Albania, durante il conflitto fra Cossovo e Serbia, ero all’ospedale ed è arrivato un uomo che portava la bara di un bambino. Io ho fatto quella foto, poi l’ho seguito sull’ambulanza, ho alzato la macchina fotografica mentre lui inchiodava la bara, e lui si è messo a piangere. Me ne sono andato. Rimpiango di non aver fatto quella foto, perché poteva essere molto significativa e drammatica, ma me ne sono andato.

C’è un collegamento fra questa dimensione privata e lenta, e il workshop che realizzerà a fine Marzo a Marsiglia?

Direi di sì. Anche qui il punto di partenza è una lettura, quella dei libri dello scrittore italo-marsigliese Jean Claude Izzo, infatti lo chiamo La Marseille littéraire. Nella sua trilogia noir Izzo trasmette un profondo amore per Marsiglia, che per lui è la città più bella del mondo, e ne descrive i luoghi in una maniera molto umana, molto profonda. Marsiglia ha una luce splendida ed è un incontro di etnie e di migrazioni. È una città dove molti scrittori si sono fermati. Io poi ho vissuto lì da bambino, e quindi per me è un po’ un ritorno alle origini. Spero che chi parteciperà si innamori della città e accresca il proprio amore per la fotografia. Spero che faccia delle buone foto, cercando di capire il perché di una fotografia, come deve essere pensata e composta. Certo, come in ogni città ci sono anche degli ambienti dove è pericoloso avventurarsi con una macchina fotografica, come nei quartieri detti cités, e lì infatti non andrà nessuno. L’obiettivo è semplicemente passare delle belle giornate, fermarsi anche a parlare con le persone, cosa che a Marsiglia, dove la gente è molto ben disposta alla chiacchera, è più che mai possibile.

Informazioni:

Date: fine marzo inizio aprile

Iscrizione 600 €

Tel. +39 333.40.07.763

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