In Germania c'è una trasmissione tv in cui la gente vende i cimeli di famiglia, rinunciando davanti a tutti, per denaro, al loro valore affettivo. Una recente usanza vuole che certuni si facciano un selfie al funerale di un loro caro, accanto alla bara, per poi scaraventarlo on line. Sono due esempi che rimandano alla stessa idea: l'immateriale vale più del reale. L'ego si sovrappone alla concretezza del mondo. Quando parliamo di realtà virtuale non ci rendiamo nemmeno conto di quanto essa ci abbia sottratto quella reale. Quelle che chiamiamo «cose», e che si distinguono per la loro tangibilità, spariscono dalla nostra visuale, sostituite dalle «non cose».
Proprio così, Le non cose - Come abbiamo smesso di vivere il reale s'intitola il saggio del filosofo sudcoreano (che da decenni vive a Berlino) Byung-chul Han (Einaudi - Stile libero extra, traduzione di Simone Aglan Buttazzi, pagg. 130, euro 13,50). L'autore, di cui è difficile ricordare il nome, ma non le opere (ne sono state pubblicate una decina negli ultimi dieci anni dall'editore Nottetempo), è un sostenitore della riappropriazione della realtà attraverso l'uso delle mani. Per semplificare: meglio coltivare un giardinetto che intontirsi con Instagram. «Non abitiamo più la terra e il cielo, bensì Google Earth e il cloud», dice. «Nulla offre più appigli». A fronte dei punti fermi dell'esistenza, siamo affogati nello tsunami dell'informazione. La possiamo chiamare infomania. Lo dimostra, aggiungiamo noi, il corso della nostra vita negli ultimi due anni. Prima assoggettati alle chiacchiere a ciclo continuo degli esperti (più o meno) di virus, adesso intontiti fino alla nausea dagli analisti di geopolitica e di strategia bellica. In più, viviamo in simbiosi con lo smartphone che, se da una parte sembra semplificarci la vita, dall'altra ci schiaccia con le sue scelte automatiche, determinate dagli algoritmi. L'eccesso di informazioni non ci conduce al sapere né alla conoscenza né all'esperienza diretta della realtà, ma solo a una sua apparenza deformata. Per semplificare ancora: l'intelligenza artificiale agisce su di noi, ma noi non sappiamo più agire al di fuori di noi, compiere atti materiali che ci tengano a contatto con la concretezza, cioè con la nostra corporeità. Il panem et circenses di Giovenale è diventato reddito di cittadinanza e videogiochi.
Che poi i videogiochi più subdoli sono i social media, basati non sul senso di comunità, ma sull'impermanenza della propria esibizione di sé. Una foto sulla spiaggia, il ritratto di una persona cara, un'istantanea rubata: le immagini in tempi di fotografia analogica avevano un valore preciso, erano fatte per afferrare qualcosa che doveva restare fissato nel tempo. Ora svaniscono subito, vengono dimenticate e rimosse da altre, all'infinito. Un'ombra digitale ci sovrasta, togliendoci il tempo che prima passavamo in compagnia fisica delle cose e delle altre persone.
È anche un'evoluzione del consumismo, questa. Siamo cresciuti sostituendo un oggetto dietro l'altro, adesso arriviamo a prenderne le distanze. Le dita scivolano sulla superficie liscia dello smartphone, non sanno neanche più toccare il legno o la terra. L'ambito dello smartphone è puramente narcisistico, è un'esasperata esibizione di sé. «Selfie» viene da «self», cioè da «sé». Che fine fanno l'Altro, gli altri?
Secondo Byung-chul Han il pensiero umano è analogico, poiché contiene un essenziale aspetto emotivo, affettivo. L'intelligenza artificiale invece non pensa: calcola. Resta irrimediabilmente chiusa in se stessa. Lo spazio di memoria può espandersi all'infinito, ma manca la dimensione emozionale del ricordo.
Nei primi cartoni animati di Topolino, o nei primi film di Charlie Chaplin, il protagonista era in continuo conflitto con le cose. Le macchine, le suppellettili, gli oggetti di uso comune gli si rivoltavano contro. Erano vitali. Oggi anche nei fumetti i personaggi usano la tecnologia per piegare la realtà alle loro esigenze. Le cose sono diventate fredde, prive di qualunque magia.
Perciò non è un caso che l'autore di questo saggio abbia fatto scelte controcorrente. Un giorno ha comprato un vecchio juke box e l'ha usato per arredare una casa quasi vuota, godendo della sua presenza fisica e ingombrante e dell'esperienza visiva, acustica e tattile che gli riserva. Si è messo a coltivare ogni genere di piante, e dello smartphone usa solo un'applicazione che gli permette di riconoscerle. Ha riscoperto il silenzio. Di recente, chiamato a tenere una conferenza a Napoli, ha scelto di non fare altro che recitare, in italiano, La pioggia nel pineto di Gabriele D'Annunzio. «Taci». «Ascolta». «Odi?». «Ascolta. Ascolta». È l'invito che il poeta rivolge alla sua interlocutrice, e a se stesso, e che appare così attuale al filosofo di Seoul. Non più parlare di sé, ma ascoltare le cose.
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