Il cuoco Bolaño, l'estro di Buzzi e i capricci del vecchio Hugo

Nel libro di Permunian un collage di aneddoti, storie e pettegolezzi tratti da saggi, romanzi, mémoires, lettere, articoli di giornale...

Il cuoco Bolaño, l'estro di Buzzi e i capricci del vecchio Hugo

LA CUCINA DI BOLAÑO

«La mia cucina letteraria è, spesso, una stanza vuota che non ha neppure le finestre. Mi piacerebbe che ci fosse qualcosa, certo, una lampada, dei libri, un lieve aroma di coraggio, ma non c'è proprio niente. La cucina letteraria, mi dico a volte, è una questione di gusto, vale a dire è un campo sul quale la memoria e l'etica (o la morale, se mi è concesso usare questa parola) si cimentano in un gioco di cui non so le regole. Il talento e l'eccellenza stanno a guardare il gioco assorti, e non partecipano. L'audacia e il coraggio partecipano solo in certi momenti, il che è come dire che non partecipano poi molto. La sofferenza partecipa, il dolore partecipa, la morte partecipa, ma a condizione che lo facciano ridendo. Un tocco doveroso di cortesia, diciamo. Ben più importante della cucina letteraria è la biblioteca letteraria (mi si conceda la ridondanza). Una biblioteca è molto più comoda di una cucina. Una biblioteca assomiglia a una chiesa mentre una cucina ogni giorno che passa assomiglia sempre più a una morgue. Leggere, l'ha detto Jaime Gil de Biedma, è più naturale che scrivere. Io aggiungerei, a dispetto della ridondanza, che è anche molto più sano, checché ne dicano gli oculisti. Di fatto, la letteratura è una lunga lotta di ridondanza in ridondanza, fino alla ridondanza finale. Nella mia cucina letteraria ideale abita un guerriero, che alcune voci (voci senza corpo né ombra) chiamano scrittore. Questo guerriero non fa altro che combattere. Sa che alla fine, qualunque cosa faccia, verrà sconfitto. Eppure percorre la cucina letteraria, che è di cemento, e affronta il suo avversario senza dare né chiedere quartiere».

(Roberto Bolaño, Tra parentesi. Saggi, articoli e discorsi. 19982003, Adelphi 2009).

NEL LIBRICCINO DI HRABAL

Sebbene io non sia un critico letterario ma un comune lettore, penso tuttavia che non sia azzardato intravedere in Lezioni di ballo per anziani e progrediti di Bohumil Hrabal quella particolare atmosfera vacuamente tragica tanto frivola quanto ridicola che Guido Ceronetti riassunse nel suo celebre e icastico grido contro la barbarie della vecchiaia: «Ah viellesse felonne et fière!». Una situazione inoppugnabilmente comica e disperata, quella che da sempre spetta al genere umano. Una sorte che induce sia al riso che al pianto, come accadde con Lezioni di ballo la cui uscita generò sì entusiasmo tra i lettori, ma anche qualche singolare protesta. Si legga, per tutte, quella a firma di un tale «Antonin Sebek dottore in medicina», attualmente conservata nell'archivio della casa editrice Ceskoslovensky Spisovatel: «Sono stato diversi anni in un Istituto psichiatrico di Stato, vale a dire in un manicomio, davvero ci sono stato, non però come paziente ma come stomatologo. Una volta un paziente aveva dimenticato in sala d'aspetto un quaderno con degli appunti e, non sapendo a chi apparteneva quel quaderno, non avevamo potuto restituirlo e me l'ero tenuto. E lì dentro c'erano frasi affastellate proprio come nel libriccino di Hrabal. C'erano racconti senza capo né coda, parole affastellate senza alcuna logica o senso. Adesso, dopo aver letto le Lezioni di ballo, rimpiango parecchio di non aver offerto alla casa editrice Ceskoslovensky Spisovatel quella creazione letteraria, arricchita magari da qualche titolo allettante del tipo: I miei ricordi di Montecarlo. Io là non ci sono mai stato, ma è un titolo appropriato giusto quanto quello di Hrabal. Quale gigantesca perdita ha patito la letteratura ceca, o forse la letteratura universale, quando ho gettato il quaderno nel cestino della carta straccia! Davvero una gran perdita!».

DUE ONESTI ARTIGIANI

«Achille Campanile: è il genere di molti altri umoristi, sì, ma anche di altri che una volta si dicevano poligrafi, che era come dire scrittori di varietà. Era giacché la qualifica è caduta in disuso e non perché di poligrafi non ce ne siano più, bensì perché non c'è più chi non lo sia. Sono giornalisti, pubblicitari, sceneggiatori, parolieri, enigmisti, compilatori di oroscopi per i quali il sadismo degli apologeti postumi affila strumenti come l'aggettivo onesto e il sostantivo artigiano. Certo su una locuzione come onesto artigiano della penna sarebbe bello leggere qualche glossa del medesimo Campanile». (Stefano Bartezzaghi, Robinson-La Repubblica, 23 maggio 2020).

«Gli archivi, si sa, offrono spesso e volentieri sorprese. Quelli degli scrittori in particolare. Ma nel caso di Aldo Buzzi se immaginiamo casse o faldoni di documenti e carte ci sbaglieremmo di grosso. Una manciata di libri, i suoi, alcuni annotati in vista di future edizioni, un pacchetto di lettere, qualche fotografia, pochi quadretti alle pareti, una cartella con i disegni di Steinberg. È un materiale selezionato filtrato dal tempo, essenziale come la sua scrittura. In vita diceva di non conservare più niente. Così affermava quasi centenario quando, accompagnando Mario Lodi, un intellettuale milanese a cui devo gratitudine per avermelo fatto conoscere, qualche volta lo andavo a visitare nell'appartamento a Lambrate, trovandolo sempre pronto, seduto sulla poltrona, a discutere con lucidità e curiosità. Arriva finalmente anche per lui con gli anni Settanta il momento più atteso, la vita desiderata, quella di scrittore. Il destino gli riserva il ruolo di scrittore defilato in tarda età di pochi raffinati libri (i più noti sono L'uovo alla kok del 1979 e Cechov a Sondrio del 1991). Aldo Busi è il «grande vecchio» della letteratura italiana che ci ha distillato ogni qualche anno pagine sapienti, piene di ironia, di velata sensualità e anche di malinconia virile su «vita, gastronomia e viaggi», come ha una volta sintetizzato in un sottotitolo apparentemente minimalista». (A. Tomasetig, A. Capatti, S. Salis, Aldo Buzzi & Saul Steinberg. Un'amicizia tra letteratura, arte e cibo, catalogo della mostra, Fondazione Credito Valtellinese 2015).

A TAVOLA CON HUGO, VERLAINE, WILDE

«12 gennaio (1892). A pranzo, con Schwob. Daudet ci ha raccontato. Era invitato da Victor Hugo. Naturalmente il grande poeta era a capotavola, ma rimaneva laggiù, in fondo, isolato, e un po' alla volta gli invitati lo lasciavano in disparte, andando verso la gioventù, verso Jeanne e Georges. Il poeta era quasi sordo e nessuno gli parlava. Ci si dimenticava di lui, quando d'un tratto, alla fine del pranzo, si udì inaspettatamente la voce del grande uomo dalla barba irsuta, una voce profonda, echeggiante da lontano, che si lamentava: Non mi avete dato il biscottino! Non mi avete dato il biscottino.

9 marzo. Ieri, pranzo della Plume. Come sono rari i visi intelligenti fra gli uomini intelligenti! Delle brutture studiate come le teste scolpite nel pomo dei bastoni. Verlaine è spaventoso, una specie di Socrate tetro e di Diogene corrotto; un misto di cane e di iena. Si lascia cascare tremolando sulla sedia che ci si è affrettati a mettergli sotto. Ride con il naso, mandando fuori come un barrito di elefante, ride con le sopracciglia e con la fronte.

7 aprile. Oscar Wilde fa colazione vicino a me. Egli ha l'originalità di essere inglese. Vi dà una sigaretta, ma la sceglie lui stesso. Non fa il giro della tavola, ma sposta tutta una tavola. Ha il viso impastato di piccoli segni rossi. È enorme e porta un enorme bastone di giunco. Dice: Pierre Loti ha stampato i suoi acquarelli. La signora Barrès è brutta. Io non l'ho vista. Io non vedo quello che è brutto. Conosco, sì, conosco il sistema di lavoro di Zola: lavorare sul documento'. Un giorno uno dei miei amici gliene ha portati due vagoni. Zola si frega le mani, finisce il suo libro, ma il mio amico gli porta ancora tre vagoni di documenti: Zola ha dovuto dormire fuori di casa.

Trecento pagine sulla guerra! Uno dei miei amici che tornava dal Tonchino mi raccontava: Quando noi eravamo vincitori si aveva l'aria di ragazzi che giocavano alla palla: vinti, avevamo l'aria di giocatori che giocano in una locanda malfamata con un mazzo di carte sporche'. Questo mi ha illuminato sulla guerra molto più che tutta La débâcle». (Jules Renard, Diario, SE 1989).

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