Il cuore degli States batte dentro l’automobile

Un secolo fa, 27 settembre 1908, usciva la Ford Model T, la prima vettura prodotta in serie usando la catena di montaggio: da lì gli Usa hanno iniziato a correre...

Il  cuore  degli States batte dentro l’automobile

Può succedere soltanto quando scende la notte e ti ritrovi a guidare in qualche angolo dimenticato da tutti - che prima o poi però ricorderai - attraverso quella che Jack Kerouac chiamò «la gran massa nuda del continente americano». Perché soltanto allora puoi capire che cosa siano per davvero quelle luci color rubino che ti precedono. E le altre, immacolate, che ti vengono incontro. Sì, proprio quelle che a una prima superficiale osservazione potrebbero sembrarti i fanali posteriori e anteriori delle vetture che rispettivamente insegui e incroci.

No, sono i globuli rossi e bianchi del gigante americano, corpaccio sconfinato che nel buio ti appare al tempo stesso inquietante e protettivo. Sono il suo sangue nomade e la sua emoglobina irrequieta. Sono i flussi vitali di un sistema venoso e arterioso che procede lento sulle matasse d’asfalto e traffico che soffocano le metropoli; fluisce veloce lungo le freeway tirate diritte a solcare praterie selvagge, foreste infinite e più spesso il nulla; oppure zigzaga attraverso vie secondarie, le ormai sbiadite “strade blu” che si prendono la rivincita sul progresso caracollando, totalmente libere, lungo i dolci rilievi di anonime campagne addormentate. Che anche quelle, prima o poi, ricorderai.

Così, miglio dopo miglio, quella scatola con le ruote che ormai da un secolo diamo ovunque per scontata, quasi un prolungamento di noi stessi, in America si rivela l’osservatorio privilegiato - probabilmente l’unico - per poter leggere nell’intimo sia quel Paese sia la sua gente, complessa e semplice al tempo stesso. Perché bisogna muoversi, per comprendere chi non sta mai fermo. Bisogna affiancarsi all’automobile accanto e scrutare la vita che si svolge al suo interno, nella colonna sonora di mille radio che diffondono musica country, saldi di materassi ad acqua e consigli psicologici da quattro soldi. Ma anche in mezzo a una baraonda di bicchieroni di caffè rovente e lattine di Coca Cola gelate, di hamburger a metà e baslotti di pop corn o pollo fritto in miracoloso equilibrio sui cruscotti.

Sono quadri iper-realistici, come potrebbero uscire dal pennello di un Edward Hopper o da un film di Robert Altman. Vedi le solite giovani madri pluri divorziate che fuggono l’ennesimo marito sbagliato e inseguono in un altro Stato, ancora più lontano, un posto da cameriera per pochi dollari in più, portandosi almeno tre mocciosi al seguito, nel retro della vecchia station wagon. Vedi marine ancora in divisa bianca, sorridenti perché finalmente in licenza; ma anche quelli già in mimetica che si mordono nervosi il labbro, chiamati a prendere un aereo che li porterà in un altro angolo caldo del mondo.

Vedi i red neck, i “colli abbronzati”, così nel Sud chiamano i burini, che vanno a caccia con il fucile fissato di traverso al lunotto posteriore, la bandiera confederata al vento e il cane che sbava e ti sorride dal pianale del pick up. Vedi improbabili sacerdoti di altrettanto improbabili chiese con le insegne al neon, mentre guidano carichi di libri, dépliant e promesse non mantenibili da spacciare, a suon di dollari, a ingenui contadini del Midwest. Vedi studenti lasciare casa - e da quel giorno, di fatto, sarà per sempre - diretti al college e di lì a qualche anno a quella che sarà loro vita. Comunque in un posto lontano, altrove.

Puoi vedere tutto questo, in America, dal finestrino di un’automobile. E molto altro ancora. Puoi vedere l’America. E puoi vederla dall’interno, da dentro le sue vene.

Via che si va, allora, su questo cavallo metallico messo un secolo fa a disposizione di tutti - anche di chi non avrebbe mai saputo né potuto cavalcare - dalla rivoluzione democratica e popolare (verrebbe quasi da definirla socialista!) di Henry Ford e del suo slogan per vendere la modello “T”, nota anche come Tin Lizzie, la prima automobile prodotta in serie al mondo: «Compratela di qualsiasi colore, purché sia nera».

Una rivoluzione al tempo stesso di massa e individuale, perché ha consentito a tutti di andare dovunque, lasciando però sempre al singolo decidere dove. Una rivoluzione ben più che tecnologica, quasi filosofica, dal momento che Andare non è soltanto un modo di Essere, ma è soprattutto il presupposto di Pensare. Ovvero, guarda caso, proprio il verbo più temuto dai dittatori. Una rivoluzione apparsa oltre Oceano nel 1908, ma che sarebbe esplosa definitivamente proprio in quegli stessi anni Venti nei quali - pensiamoci - la Vecchia Europa partoriva invece i due più atroci mostri del secolo scorso e dell’intera storia umana: comunismo e nazismo.

Ma a tutto questo non ci pensano, gli inesausti nomadi a stelle e strisce che all’inseguimento di un lavoro, di un amore, di una città o anche soltanto di un clima migliore, si spostano da un angolo all’altro del Paese. Un Paese tanto grande che la somma di tutte le aree urbane - dalle megalopoli ai più minuscoli villaggi - costituisce appena il 3% dello spazio totale, mentre il restante 97% è foresta, è prateria, è deserto, è acqua ed è montagna. È, appunto, quel corpaccio sconfinato. Ed è soprattutto libertà: fisica, da toccare e da respirare.

Non ci pensano, perché per loro non esiste altro modo di vivere. Non ci pensano perché quel modo di vivere gli assomiglia. Non ci pensano perché quel modo di vivere “è” l’America. E lo è dall’inizio, dalle prime piste tracciate nel fango e nell’erba dai carri dei pionieri. Solchi sottili che poi, proprio grazie all’auto e alla sua diffusione, sono diventati prima tratturi sterrati di campagna, poi arterie statali, quindi larghe e veloci interstate, seguendo l’irrefrenabile contagio motorio che ha irradiato e innervato via via l’intero Paese, collegando tra loro tutte le migliaia e migliaia di punti immaginari che vanno a comporre il disegno finale e complessivo di quell’unica, irrinunciabile, libertà di movimento.

Nel bene come nel male, questo va detto. Perché proprio sull’auto e con l’auto l’America ha sperato e perlopiù disperato nelle dolenti migrazioni interne di chi, negli anni ’30, si trovò da un giorno all’altro miserabile per colpa della Grande depressione. Perché sempre su quattro ruote l’America ha violato o difeso la legge, rispettivamente da inseguita o da inseguitrice, in gessato o in uniforme, nel periodo rovente del gangsterismo. Perché è su dei sedili reclinabili che l’America ha ansimato in massa nel buio dei drive in degli spensierati anni ’50, tra sentori di brillantina, sigarette Camel senza filtro e gomme Wrigley, gusto spearmint, appiccicate allo specchietto retrovisore giusto il tempo necessario alla copula. Un’intensa attività sessuale che avrebbe dato vita al fenomeno epocale dei baby boomers.

E sempre sull’auto, e con l’auto, dipinta a fiori e condotta agli appuntamenti dei mega-cortei pacifisti o delle manifestazioni per i diritti civili, l’America ha anche prodotto per prima, senza bisogno né di Marx né del comunismo quella rivoluzione giovanile, studentesca, per davvero libertaria, che sarebbe stata poi mal scimmiottata, macchiata di violenza e intrisa di insopportabile spocchia culturale da caffè parigino, dall’Europa con il suo Sessantotto.

E si potrebbe ricordare altro, sempre nel male come nel bene, per ribadire gli inscindibili destini che legano questo grande Paese alle quattro ruote. Che proprio su una limousine aperta, il 22 novembre del 1963, fu assassinato John Fitzgerald Kennedy, 35° e amatissimo presidente degli Stati Uniti; che ancora su un’automobile stava salendo Ronald Reagan quando un folle attentò alla sua vita il 13 marzo 1981. Ma si può anche sorridere - questo è il bene - ricordando la buffa modello “313” rossa e blu che Walt Disney affidò come compagna di strada lungo l’accidentato percorso della vita a Donald Duck, alias Paperino, insuperabile simbolo dell’uomo medio nevrotico, eppure incredibilmente americano, ovvero irrimediabilmente ottimista a dispetto di una sfiga leggendaria.

O si potrebbe anche citare quel Maggiolino cinematografico di nome Herbie - sempre “farina” di casa Disney - umanizzato fino al punto di dargli occhi, bocca, voce e sentimenti. Né si può dimenticare l’automobile anonima, tirata sempre a lustro dal proprietario la domenica mattina, che insieme alla villetta individuale con giardino, è stata l’inscindibile icona di quel sogno americano che ha attirato e continua ad attirare negli Stati Uniti uomini e donne da tutto il mondo.

E l’America, anche questo si può vedere guardando da un finestrino, ha ricambiato a modo suo l’automobile per la libertà ricevuta. Lo ha fatto plasmando addirittura la struttura urbanistica delle sue città a uso e consumo della sua compagna a quattro ruote. Con zone residenziali periferiche tranquille, i suburbs, fatte soltanto per vivere e dormire, dove le strade finiscono tutte - milioni di vasi capillari - davanti a ogni singola porta di casa. E con rumorose aree commerciali separate, dove su un’unica arteria, alla portata di un popolo nomade 24 ore su 24, è sempre disponibile tutto, proprio tutto: un motel dove fermarsi la notte per dormire o per peccare; un’autofficina per i possibili guasti all’amata vettura; una clinica chiropratica per dare una sistemata a quelli propri, fin alle ossa più innominabili, perché guidare a lungo finisce per far male proprio lì; una stazione di servizio per nutrire il motore; un ristorante per nutrire se stessi; e perché no?, una chiesa.

Sì, una chiesa qualsiasi, perfino una di quelle improbabili che ci sono qui, con la croce al neon che brilla intermittente nel buio.

Perché quando ti capita di guidare di notte, in qualche angolo senza nome dell’America che prima o poi ricorderai, può capitare di sentire il bisogno di fermarsi un attimo. Per guardare il cielo e per nutrire anche l’anima.

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