«CUORI NERI»

«CUORI NERI»

(...) Il fatto è che lui aveva detto quella frase, dal palco, mentre gli scontri erano già iniziati. Io non c’ero, lui me l’ha raccontato mille volte. Hanno scritto tante cose su Giorgio, sul suo rapporto con la violenza: che era un assassino, un boia, il capo delle squadracce nere… E invece lui, pensa tu, era tormentato dal senso di colpa per quello che aveva chiesto ai suoi ragazzi, quel giorno».
Giorgio Bornacin, deputato di An, 2004:
«Parliamoci chiaro, lì per lì anche noi restammo interdetti. Ci avevano aggirato, attaccati alla spalle, cominciò a piovere di tutto. La polizia aveva lasciato quel lato sguarnito, e gli extraparlamentari sbucarono dietro il palco, dove a difesa del capo c’eravamo solo noi, i ragazzi della Giovane Italia: nessuno pensava che avrebbero caricato. Almirante stava parlando, dall’alto vide quello che accadeva, e fu allora che gridò nel microfono: “Toglietevi i caschi! Non cadete nella provocazione! Non fate come loro: loro hanno la forza delle pietre, noi quella delle parole”. Disse proprio così. Avevo ventun anni, c’ero».
Umberto Testori, ex federale di Genova: «Caschi, ma di che caschi mi sta parlando? Non avevamo nessun casco, ne bastoni, né nulla. I nostri ragazzi erano a mani nude, disarmati. Se Bornacin le ha detto questo si sbaglia. Io ero lassù, sul palco, al fianco del segretario, e pioveva di tutto: provammo a ripararlo con i nostri corpi, con le mani, perché lui volle continuare il comizio fino alla fine. Se avesse detto una cosa simile lei pensa che non me ricorderei?».
Giorgio Cabona, critico cinematografico de «Il Giornale», ex militante della Giovane Italia:
«La cosa ridicola di questa morte è che sembrava non avesse nessun senso. C’erano stati scontri molto più duri prima, a Genova, e ce ne sarebbero stati di molto più cruenti dopo. Venturini prese la botta sulla testa, si rialzò subito, fece un cenno come per dire: nulla di grave. So che pare brutto dirlo, ma quello che accadde fu solo sfiga. Nient’altro che maledettissima sfiga».
Assunta Almirante:
«Restò a combattere in un letto di ospedale quindici giorni, e Giorgio non si mosse da lì nemmeno per un minuto. Cancellò tutti gli altri impegni, rimase al suo capezzale, e io gli portavo la biancheria di ricambio. Venturini fu lucido fino alla fine, sa?».
Pierluigi Gatto, ex segretario provinciale del Msi, ex medico del Genoa:
«Senta, io lo portai all’ospedale. Il problema non fu tanto la compressione cranica, per cui l’operarono subito. Il problema era un altro: quella maledetta bottiglietta era piena di terra. Ancora non riesco a capacitarmi del fatto che l’antitetanica non abbia avuto effetto. Eppure Ugo è morto così: per una banale infezione da tetano».
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«Almirante non deve parlare». A giugno si vota per le elezioni regionali, le prime della storia d’Italia. Gli scontri del 18 aprile, ormai in piena campagna elettorale, e mentre il segretario del partito è impegnato in un interminabile giro del paese, sono stati annunciati nel più strano dei modi, da una radio pirata che due giorni prima il comizio si è inserita nella normale programmazione del telegiornale Rai. Il messaggio è andato in onda in tutta l’area della Liguria: dapprima i telespettatori hanno pensato ad una interferenza, a qualche problema di sintonia o all’antenna. Poi, tra la nebbia del monoscopio e il buio di un segnale catodico azzerato è arrivato l’audio dell’appello, breve, chiaro, perfettamente distinguibile: «Scendete in piazza, impugnate i fucili e le mitragliatrici. Difendetevi dai fascisti! Almirante non deve parlare». A firmare la rocambolesca incursione nelle frequenze della Rai è una sigla che apparentemente si richiama alla Resistenza, quella dei «Gruppi di azione partigiana», anche se la sezione genovese dell’Anpi si affretterà a diffondere un comunicato per spiegare: «I Gap dell’appello non hanno nulla a che vedere con i partigiani liguri. È solo una provocazione». Nonostante questo, la vigilia della manifestazione e il clima che la prepara, sono fortemente segnati da quel messaggio, dalle scritte che appaiono sui muri della città: «Fascisti morirete», «Almirante, non uscirai vivo da Genova».
È ancora vivissimo, nella memoria dei genovesi il ricordo degli scontri di piazza che nel luglio del 1960 impedirono al partito di celebrare il suo congresso nella città, proprio nel momento in cui sembrava che il Msi potesse entrare nel grande gioco politico nazionale, dopo l’appoggio esterno offerto in Parlamento al governo del democristiano Fernando Tambroni. I fatti di Genova in quei giorni hanno prodotto il naufragio quel tentativo e respinto nell’angolo dell’opposizione il partito, che all’epoca era guidato da un conservatore azzimato dall’eloquio forbito: Arturo Michelini.
Ma nell’aprile del 1970 c’è un elemento in più ad innescare la contestazione: dopo una lunga malattia che ha stroncato Michelini, alla guida del Msi è tornato, dopo anni di opposizione interna, l’uomo che ha fondato il movimento: Giorgio Almirante. Ha preso il controllo del partito da pochi mesi, ma è già un simbolo sia per gli amici che per i nemici. Figlio di attori, oratore instancabile, ex capogabinetto durante la Repubblica sociale, leader carismatico, abilissimo nella manovra politica, maestro in quella che viene definita la politica del «doppiopetto», ovvero la capacità di far convivere all’ombra della Fiamma l’immagine di un partito conservatore e rispettabile, e quello di un partito antisistema.
È lui l’uomo che non si tira mai indietro, l’idolo della base e degli attivisti. È lui il segretario di che un giudice azionista, il capo della procura di Milano, Luigi Bianchi D’Espinosa, di lì a poco – un anno - incriminerà e tenterà di processare per ricostituzione del partito fascista. È lui l’uomo accusato di aver firmato un bando di fucilazione per i partigiani renitenti alla chiamata apparso in un comune del grossetano nel maggio del 1944, «il fucilatore». È lui l’uomo immortalato in una storica foto in bianco e nero del 1968, sulla scalinata di Giurisprudenza. È insieme ai Volontari nazionali (il servizio d’ordine del movimento), agli allievi dell’accademia pugilistica di Angelino Rossi, ai ragazzi con i fazzoletti tricolori e i bastoni in mano, i ragazzi della Giovane Italia – l’organizzazione giovanile da cui nel 1971 nascerà il Fronte della Gioventù - e al deputato Giulio Caradonna, che li guida.
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Giorgio Almirante, «Autobiografia di un fucilatore fascista», 1973:
«Il titolo di questo libro è doppiamente bugiardo, perché non si tratta di una autobiografia, e perché io non sono un fucilatore. L’amico lettore penserà forse che io mi metta subito le mani avanti per liberarmi della taccia o del sospetto di fucilatore. No, se fosse per questo un po’ di suspence la lascerei nell’aria fino all’ultimo capitolo. Dati i tempi, può persino apparire sconveniente non avere qualche delitto da confessare. No. Metto le mani avanti soprattutto perché non si pensi che io abbia ritenuto di scrivere un’autobiografia».
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Ecco, la foto sulle scale di Giurisprudenza: lo scatto è del 16 marzo del 1968, il giorno della spedizione organizzata dal partito contro gli studenti di sinistra che occupano la facoltà di Lettere. Almirante ha il cappello in testa e sorride, un giovane missino al centro dell’inquadratura, con una spranga tra le mani lo guarda ammirato. Di fronte al leader c’è Caradonna. Dietro, con un impermeabile, c’è persino un ragazzo sui vent’anni che si chiama Filippo Pepe, un futuro giornalista che quando il centrodestra vincerà le elezioni, nel 2001, diventerà portavoce di Maurizio Gasparri. Il motivo per cui quell’immagine ti rimane impressa, però, è qualcosa che riguarda Almirante: un taglio di sorriso, un mezzo passo, il gesto che sta facendo con la mano. È poco più di un cenno: però tutto – le pose, i corpi, gli sguardi – tutto gravita intorno a lui. C’è sempre una foto che diventa il simbolo di un evento o il racconto di una storia. Quell’inquadratura, a rivederla oggi, racconta insieme la fine di un’epoca e la nascita di un capo: se l’avessero provata per un anno, in un teatro di posa, non sarebbe mai venuta così bene.
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Giorgio Almirante, «Autobiografia di un fucilatore fascista»:
«Mi sento dire di continuo che sono un attore, che recito, che la mia è una commedia, che persino la foggia del vestire si adegua al personaggio che vorrei tentare di essere o di apparire… Ebbene sì. Sono nato dietro le quinte di un palcoscenico; non importa di quale città. Una settimana dopo, mi battezzarono, altrove. Le prime immagini della mia vita: bauli, i grossi bauli delgi attori. La prima emozione: un treno fermo di notte sul ponte di Venezia per allarme aereo, durante la prima guerra mondiale. Bauli e treni, treni e bauli. Ho ereditato di là il mio perenne viaggiare, il gusto per il viaggio scomodo, il viaggiare come una volta, non da turisti e non da uomini di affari; il viaggiare tanto simile a quello degli emigranti: loro con le loro vaniglie prigioniere di corde di cui nessuno capirà mai la funzione; noi, i guitti, con i nostri verdi bauli».
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Quel giorno, quel 16 marzo ha significato molte cose, sia per la destra che per la sinistra: la spedizione permise al Msi di stroncare sul nascere la pericolosa eresia di un “Sessantotto nero”, cacciando dalla facoltà anche gli occupanti della sua sezione universitaria, quella del “Fuan-Caravella”, che fino ad allora avevano convissuto pacificamente con i loro colleghi di sinistra, occupando anche loro: gli universitari della “Caravella” avevano partecipato a Valle Giulia (dalla parte degli studenti) e avevano vagheggiato un movimento unitario in cui le differenze politiche potessero scomparire nel nome di una comune battaglia generazionale. Era solo un progetto impossibile, coltivato da una porzione minoritaria del mondo giovanile missino? Forse. Ma doveva anche sembrare un sogno pericoloso e terribilmente concreto, se è vero che “Il Secolo d’Italia” e “Il Borghese” dedicavano colonne infuocate ai loro giovani ribelli e una parte dell’opinione pubblica moderata guardava con preoccupazione ai “movimentisti di destra”. Persino Junius Evola, il filosofo che per i suoi scritti era considerato il padre politico e spirituale delle giovani leve della destra giovanile ed era stato preso a modello dai sessantottini neri (il suo libro “Cavalcare la tigre” era interpretato come un invito alla contestazione più radicale), sul settimanale diretto da Mario Tedeschi, scomunicherà pubblicamente i discepoli che hanno occupato Giurisprudenza. Qualcuno di loro arriva a scrivere sui muri: “Viva Hitler, viva Mao”. Sono quelli dell’ala più radicale, destinata a rompere con il Msi e a fondare un movimento che sia chiama Olp in omaggio ai palestinesi e a Yasser Arafat. O-elle-pi: Organizzazione Lotta di Popolo. Ma i suoi militanti, si vedranno affibbiare da La Nazione un altro nomignolo, sicuramente più evocativo, destinato a maggior fortuna: “nazi-maoisti”.
Così, con la spedizione della Sapienza Almirante raggiunge due obiettivi: si accredita definitivamente come futuro segretario dimostrando di poter raccogliere l’eredità di Michelini, e rassicura l’opinione moderata e conservatrice che torna a guardare al Msi come a un baluardo contro “i rossi” e “i cinesi”, e tutti i contestatori studenteschi di ogni segno e colore. Il 16 marzo è un giorno di battaglia: i Volontari Nazionali missini sfondano i cancelli della città universitaria, arrivano a Giurisprudenza, e da lì danno l’assalto a Lettere, dopo aver precettato o espulso i camerati renitenti. Vengono respinti, parte una controffensiva: dal tetto della facoltà, dove si sono asserragliati insieme ai loro dirigenti, i ragazzi del Msi buttano sulle scale tutto quello trovano: sedie, armadi, lastroni di vetro disincardinati dai telai delle finestre. Un banco si abbatte sul colpo del leader sessantottino Oreste Scalzone rompendogli la schiena. I feriti non si contano più su entrambi i fronti, ma il drappello dei missini, a cui all’ultimo momento sono mancati due pullman partiti dalla Calabria (fermati in autostrada dalla polizia) sta per avere la peggio. A comandare la piazza c’è un giovane di Rieti, Guglielmo Rositani, futuro deputato di An, che ancora oggi, solo al ricordo, perde il sorriso: “Madonna! Non ho mai visto tante botte come quel giorno”. Alla fine, a salvare gli uomini di Almirante interverrà la polizia, che entra (tardivamente) dentro la città universitaria, separa i contendenti, incrimina Caradonna e arresta 52 attivisti.
Fra questi c’è un volontario nazionale di Genova, un operaio di trent’anni: il suo nome è Ugo Venturini.
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Il Secolo XIX, 19 Aprile 1970:
«All’ospedale sono stati ricoverati due giovani. Ugo Venturini, via Spalato 31, e Carlo Marazzia, 19 anni, via Bonifacio 4. Il primo è stato ricoverato con una prognosi riservata per una ferita al capo. L’altro guarirà in pochi giorni. Lievemente contusi sono rimasti anche due sottufficiali di pubblica sicurezza e vari giovani di sinistra. Questi ultimi, però non si sono presentati agli ospedali».
La prima ricostruzione del quotidiano genovese è tutta contro gli attivisti almirantiani: «Un gruppo sparuto di missini con caschi e bastoni, ha anche tentato di formare un corteo che non era stato autorizzato. I giovani estremisti sono riusciti a filtrare tra i massicci schieramenti di agenti e carabinieri ma sono stati bloccati all’imbocco di via XX Settembre. Uno dei missini si è disfatto di una piccola pistola, un altro di un grossa catena di ferro., quando gli agenti hanno iniziato la carica. Entrambi però sono riusciti a fuggire. Poco prima, lo stesso gruppetto di fascisti aveva aggredito alcuni giovani isolati di estrema sinistra». Ma è andata davvero così?
Pochi giorni dopo, il 30 aprile, quando le condizioni di Venturini diventano disperate “Il Secolo XIX” accredita una nuova versione, molto più vicina a quella fornita dai dirigenti della Fiamma: «La segreteria politica del Msi ritiene di aver identificato il responsabile del lancio della bottiglia che ha colpito Venturini. In quell’occasione, infatti, v’erano alcuni cineoperatori che hanno filmato la sequenza del comizio: e quindi la scena del lancio della bottiglia, la cattura del responsabile da parte di alcuni amici del ferito, la sua fuga all’arrivo delle forze di polizia che cercavano di dividere i contendenti». Il quotidiano, stavolta, ricostruisce la dinamica in questo modo: «Per mezz’ora circa l’onorevole Almirante aveva potuto parlare senza essere interrotto. I “Cinesi” si tenevano ad un certa distanza e si limitavano a lanciare qualche fischio.

«Improvvisamente – hanno affermato alcuni dirigenti della segreteria del Msi – i “cinesi” hanno iniziato a tirare bottiglie nella direzione del palco e una di queste ha colpito alla testa Ugo Venturini».
(1 - continua)

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