Il Cyrano di Popolizio antidoto all’afasia moderna

Piroetta con le parole come un istrionico retore d’altri tempi. Recita versi d’amore con la stessa abilità con cui maneggia la spada, traducendo la facondia nella più sublime arma per colpire al cuore le donne. Alza e abbassa la voce di continuo. Punzecchia le rime, ora infuocate ora gelide, per renderle visive, concrete. Il Cyrano de Bergerac di Massimo Popolizio, in scena all’Argentina per la regia di Daniele Abbado, è un fiume in piena di emozioni. Assai diverso dai precedenti illustri di Gino Cervi, Pino Micol, Gigi Proietti, Franco Branciaroli, questo Cyrano in redingote grigia e dal naso non esageratamente vistoso è prima di ogni cosa un attore: un «grande attore» di stampo ottocentesco che monopolizza la scena a furia di versi, metafore, figure retoriche, al solo scopo di mostrare, attraverso il corpo e la voce, la forza del «dire» i sentimenti, la forza della scrittura e dunque, in ultima analisi, la forza del teatro. Le radici di tale coloritura istrionica si trovano certamente già nel testo: la celebre commedia di Edmond Rostand (1897) evoca in chiave post-romantica la figura di Savinien de Cyrano de Bergerac, spadaccino, commediografo, libellista e utopista francese vissuto nel XVII secolo che qui presta il suo talento al giovane guascone Cristiano (Luca Bastianello) affinché questi sposi la bella Rossana (Viola Pornaro), di cui è egli stesso innamorato. Sull’opera, però, lo spettacolo di Abbado (non privo di qualche lentezza e ridondanza) lavora con forte libertà creativa. Il regista cala i fatti in un’atmosfera da melodramma ottocentesco e affida alla scenografia plumbea di Graziano Gregori il compito di creare uno spazio sgombro di orpelli, dove tutto si regge sulla parola. E non c’è dubbio che Popolizio riesca a far vibrare questo «vuoto» di un’interpretazione avvolgente: una sfida moderna contro l’afasia, l’omologazione linguistica, la «timidezza» espressiva dei nostri tempi. Cyrano ci appare come un dandy senza fissa dimora che abita le stanze dell’utopia (proprio L’autre monde ou les ètats et empires de la Lune si intitola una delle opere più famose dello scrittore secentesco), che odia il potere e i compromessi, che «gigioneggia» prendendosi gioco di tutto, tranne che dei sentimenti.

Prolifico di lettere e liriche d’amore, egli resta tuttavia nell’ombra; non può vivere la sua passione in prima persona. Si rivelerà a Rossana solo molti anni dopo, quando ormai lo attende un viaggio senza ritorno. E se sia una partenza per la Luna o per l’Aldilà non fa poi molta differenza.

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