Via dall’Irak, occhio al Vietnam

C’è qualcosa di surreale, eppure di inevitabile, nei sempre più fitti accostamenti fra Irak e Vietnam: fra una guerra che l’America in qualche modo rischia di perdere e l’unica guerra che l’America, trent’anni e passa fa, ha perso. Singolare è, intanto, che l’accostamento non venga più proposto, come era stato fino a ieri, da oppositori dell’impegno militare Usa a Bagdad, che lo usavano come uno spauracchio per dire: guardate che fine faremo se non ce ne andiamo in fretta. Adesso a proporlo sono piuttosto i sostenitori di quell’impegno, incluso l’altro giorno George Bush in persona. Parlando alla platea evidentemente più adatta, una riunione dei veterani di quel conflitto antico, il presidente lo ha rilanciato come monito opposto: guardate a che cosa andiamo incontro se dall’Irak ce ne andiamo come facemmo dal Vietnam. L’argomento della Casa Bianca non è privo di considerazioni indiscutibili. Intanto che, in Indocina ieri come nel Medio Oriente oggi, «si diceva che il vero problema era la presenza americana e che se ci fossimo ritirati sarebbe finito lo spargimento di sangue». Mentre la storia ha dimostrato che è accaduto esattamente l’opposto, non tanto nel Vietnam vero e proprio, quanto nella Cambogia dove la partenza degli Usa lasciò disarmato il governo e rese inevitabile la vittoria totale dei Khmer Rossi, che nel contesto ideologico del comunismo forsennato alla Mao costituivano la Al Qaida rossa e, preso il potere, lo usarono con ferocia senza precedenti nella storia del mondo, uccidendo fra un terzo e un quarto dell’intera popolazione civile. Bush lo ha ricordato e con pieno diritto, anche se il riferimento ha disturbato la memoria di coloro che quel ritiro avevano chiesto e alla fine imposto negli ultimi mesi di un’Amministrazione Nixon agonizzante per il Watergate e poi durante la debole presidenza ad interim di Gerald Ford. È ovvio che nessun inquilino della Casa Bianca è disposto, per motivi di orgoglio personale ma soprattutto di dignità nazionale, a entrare nella storia con una responsabilità del genere. Hanno usato il Vietnam contro di lui e adesso Bush cerca di usarlo contro i suoi critici, semplificando e magari stiracchiando un po’ i ricordi a fini polemici.
La verità è che fra l’Indocina degli anni ’60-70 e l’Irak del XXI secolo ci sono punti di contatto generici e molte differenze specifiche, tante da rendere il parallelo suggestivo ma improprio. Intanto le circostanze dell’intervento americano sono state completamente diverse: in Vietnam in soccorso di un alleato, o almeno di un Paese protetto, invaso da un nemico appartenente al «mondo» opposto durante la Guerra Fredda. In Irak c’era una dittatura ma non la guerra e le Forze Armate Usa sono entrate non per difendere lo status quo ma per portare un cambiamento di regime. Secondo: il nemico di allora, il Vietnam del Nord, era uno Stato con un territorio configurabile e una chiara scelta di obiettivi militari. Anche se nel Sud si combatteva una lotta antiguerriglia nelle risaie e nelle giungle, a Nord c’era un mandante e un esercito regolare. Altra differenza: il Vietnam del Nord era apertamente armato e rifornito dalle due massime potenze comuniste di allora, l’Unione Sovietica e la Cina. Da allora non è cambiato soltanto il Sud Est Asiatico: è cambiato il mondo.
Ci sono poi, invece, le somiglianze, e principalmente due: il ruolo allora come oggi predominante della guerriglia con il suo corollario terroristico, anche i Vietcong uccidevano civili per spargere il terrore nei villaggi, anche se con obiettivi politici più razionali e senza ricorrere in genere al terrore cieco e fanatico delle contrapposte sette religiose. Ma soprattutto quella guerra e questa sono lunghe, una caratteristica cui l’America non è mai stata preparata. Le sue strutture militari con la loro strapotenza sono create e mantenute per condurre dei blitz, soprattutto dall’aria. Il prolungarsi dei combattimenti, il ristagno delle azioni militari in situazioni che solo l’assenza delle trincee distingue in realtà da una «guerra di trincea» come la Prima guerra mondiale contraddicono tutta l’impostazione politico-militare di Washington. Lo aveva capito un generale e presidente, Dwight Eisenhower, che prima di lasciare la Casa Bianca ammonì che l’America avrebbe dovuto ad ogni costo evitare di «farsi coinvolgere in una guerra terrestre in Asia». L’opinione pubblica, soprattutto, non vi è preparata e non lo tollera; una conseguenza proprio del fatto che gli Stati Uniti sono un Paese democratico che può prendere decisioni dettate dal proprio interesse nazionale e imperiale ma ha bisogno, a lunga scadenza, del consenso popolare. Gli storici hanno notato da tempo che gli Stati Uniti «non hanno mai vinto una guerra che durasse più di quattro anni», con la sola eccezione della guerra di indipendenza contro la Gran Bretagna dove i «guerriglieri» erano gli americani e l’«alleato americano» fu la Francia. Le memorie, naturalmente, non possono dirigere da sole l’azione politica. Spesso, anzi, sono fastidiose.

Le considerazioni di Bush a proposito del Vietnam sono in gran parte ragionevoli ma non è detto che vengano accolte favorevolmente in un clima politico in cui il decano dei senatori repubblicani, Jack Warner, chiede alla Casa Bianca di riportare a casa qualche migliaio di soldati prima di Natale e in cui si moltiplicano le pressioni perché Washington «liquidi» il governo inaffidabile di Bagdad, lo stesso salito al potere con l’«assenso» americano. Se così sarà si ripeterà, stavolta sì, la storia del Vietnam. Anche a Saigon c’era un presidente che funzionava male: Diem. Il presidente Kennedy lo fece abbattere e da allora le cose andarono di male in peggio.

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