Credo sia giunto il momento di domandarsi se in Italia esista ancora la democrazia. Badate bene, in passato, quando la sinistra parlava di regime berlusconiano, ero il primo a ridere. L'idea che il Cavaliere avesse messo il bavaglio all'informazione - perché di questo il presunto regime era accusato - era talmente campata in aria che la stessa federazione europea della stampa alla fine dovette ammettere che in Italia esisteva un sistema plurale dell'informazione. Del resto qual è quel regime che imbavaglia la stampa, ma lascia che nell'orario di maggior ascolto, nei programmi di grande successo, si facciano sondaggi sul tiranno e, tramite le tv di proprietà del caudillo, si faccia propaganda contro le leggi del governo? Le argomentazioni erano talmente fesse che solo quelli della Freedom House hanno potuto crederci e solo loro, ieri, hanno potuto dire - mentre si sta per varare una legge draconiana contro la stampa - che in Italia oggi c'è più libertà di informare di quando c'era «Lui».
Ma la minaccia per la democrazia non viene dal bavaglio alla stampa, dalle multe che il sistema politico si appresta a dare ai cronisti per impedir loro di raccontare inchieste che fino a ieri, «regnante» Berlusconi, i giornali avevano massima libertà di riferire. Il rischio viene dalle pressioni che questo governo esercita sul mondo dell'economia e, ancor più gravemente, sugli organi costituzionali. Nel giro di una settimana noi abbiamo assistito a due eventi allarmanti. Quello più recente sono le dimissioni di Romano Vaccarella, membro della Consulta. Il giudice, dopo gli interventi di alcuni ministri contro il referendum elettorale e le pesantissime frasi anti consultazione popolare del presidente della Camera Bertinotti, si è dimesso, denunciando pesanti ingerenze sulle decisioni della Corte costituzionale. L'intera Consulta ieri ha votato un documento che è un atto d'accusa contro i ministri di Prodi. Mai era accaduto che tutti i giudici dell'alta Corte imputassero al governo di aver cercato di condizionarne le decisioni. Mai, in sessant'anni di Repubblica, la polemica tra i custodi dei principi costituzionali e l'esecutivo aveva raggiunto questi picchi.
Allo scontro istituzionale si deve aggiungere quello economico. Dopo mesi di pressioni su società quotate in Borsa, abbiamo letto - per bocca del presidente della Pirelli, Marco Tronchetti Provera - di numerose ingerenze politiche durante la trattativa Telecom. E da che parte arrivassero quelle invasioni di campo, se già non era chiaro a chi ricordava il caso del consigliere di Prodi Angelo Rovati, è bastato ascoltare le dichiarazioni che il presidente delle Generali, Antoine Bernheim, ha fatto durante l'assemblea dei soci, rivelando le telefonate del ministro Tommaso Padoa-Schioppa affinché la compagnia assicurativa intervenisse in quella telefonica. Al centro di entrambe le vicende c’è Palazzo Chigi, con i suoi interessi politici ed economici. Ministri che non si sono fatti scrupolo di spingere la Consulta a bocciare un referendum di cui è in corso la raccolta delle firme. Altri ministri che non si sono imbarazzati a spingere Telecom nelle braccia da loro preferite.
Dai due casi si deducono due osservazioni.
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